La Stampa, 20 dicembre 2022
Le tribù dei condomini
In Italia esistono due forme di Stato: la Villetta e il Condominio. La prima è un’aspirazione, il secondo una rassegnazione. Nella villetta si finisce per ammazzarsi in famiglia, nel condominio tra famiglie. Quando nella villetta esplode la violenza di Pietro Maso o di Erika e Omar gli osservatori del vivere sociale si affrettano a caricare qualche responsabilità sul locus commissi delicti, individuando un fattore scatenante in quell’isolamento, quell’ambizione su fondamenta, dunque fondamentale. Quando la sessa cosa accade nel condominio, come a Fidene, si minimizza. Forse perché gli osservatori abitano in una struttura del genere o perché se lo si segnala come miccia le esplosioni a seguire potrebbero essere troppe.
Il condominio tribalizza. Raduna sotto una tenda allargata un numero vario di umani. Non esiste una cifra perfetta, nel senso di innocua. Quello piccolo, da sei o otto, facilita le contrapposizioni, i faccia a faccia quotidiani, rende le invidie e i dissapori continui e diretti. Quello grande, da decine, addirittura un centinaio, è il luogo perfetto per le fazioni, la guerra civile. Il condominio non è naturale. Siamo una specie pericolosa, dovremmo vivere a distanza di sicurezza, almeno cinque chilometri, altroché villette a schiera. Schierate l’esercito sui pianerottoli, nei garage, alle porte degli ascensori. L’agguato è in agguato. Nessuno rivela volentieri quanto guadagna (ancor meno, quanto denuncia). Nel condominio è sotto gli occhi di tutti in quanto si abita. C’è questa cosa dei millesimi che lo rende noto. Chi più ne ha più paga, certo, ma si scopre che ha balconi più larghi, o doppi servizi. Quindi, sicuramente «farà del nero». Già non bastava la diseguaglianza spalmata sui piani. Quello dell’attico guarda tutti dall’alto in basso, quello del pian terreno è pronto a tutto pur di salire al suo livello. Ma ce n’è sempre uno superiore. Come nella scala dell’ordinamento giuridico (stufenbau) concepita dal filosofo tedesco Hans Kelsen: quando sei arrivato alla legge costituzionale, che cosa resta? La norma fondamentale (grundnorm), quella presupposta. L’equivalente del superattico. Quello verso cui, con la languida malinconia dei superati, guardava dall’attico il protagonista della Grande Bellezza. È una dannazione, è una provocazione. Il palazzo è disseminato di mine anti-condomino. Si può esplodere per una veranda abusiva sbucata nottetempo al terzo piano (lanciamole contro dei cachi), per la pergotenda che diventa un tetto permanente (e allora ci buttiamo sopra i rifiuti), per l’ascensore che si ferma sempre al quarto, dove hanno fatto il bed and breakfast, quelli che ci vanno tirano fuori il valigione e chi se ne frega se di sotto c’è un invalido che aspetta (denunciamo il proprietario a Equitalia).
Ogni condominio ha il suo maniaco del silenzio, uno che vive solo, di fianco a una famiglia con tre figli e infila sotto la porta un biglietto con su scritto: «Siete pregati di usare meno lo sciacquone, disturba la mia quiete. Forse che io disturbo la vostra?». Che lui sia uno e loro cinque non lo concerne. Sono cresciuto in un condominio circondato per ogni lato da spazio erboso o ghiaioso. Ideale per organizzare partite di calcio, ma ero l’unico bambino. Il colonnello in pensione dell’ultimo piano impose la norma che vietava l’ingresso in cortile a bambini residenti in altri palazzi. I loro condominii approvarono quella che nel diritto internazionale (avrei scoperto all’università) si definisce «clausola di reciprocità»: misero al bando me. Guerra fredda alla periferia di Bologna. «Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio», avrebbe scritto l’algerino Amara Lakhous nel 2006, quando i condomini cominciavano ad assomigliare ad assemblee dell’Onu e ora, come in quello enorme e diroccato del film «Come un gatto in tangenziale», si accusano gli indiani di cuocere cibi dall’odore troppo forte, o i bengalesi di suonare e cantare quand’è ora di dormire o i cinesi di essere tanti, di non essere mai gli stessi, o forse sì, perché non si sa distinguerli.
A New York il condominio è una repubblica, decide per votazione ogni piccolo particolare (il colore della riga sui battiscopa, il segnale che distingue le porte a cui i bambini possono bussare per Halloween dicendo «dolcetto o scherzetto?», l’orario di apertura delle sale comuni). È un referendum continuo e lo scopo è di rendere le scelte condivise e le diseguaglianze ridotte. Nei condomini più moderni d’Italia si è importato il modello: zerbini identici a ogni soglia, colore delle tende da sole uguale per tutti. Non fosse che si scatenano discussioni sanguinose per stabilire il materiale su cui pulirsi le suole delle scarpe e la tonalità di grigio da esporre ai balconi o terrazze. Dove avvengono? Nel luogo più temuto: l’assemblea. Una persona educata e mediamente istruita dalla scuola e dalla vita può partecipare a un massimo di tre nel corso dell’esistenza. Poi o diventa come gli altri condomini o diventa la loro vittima designata. L’amministratore, una figura mitologica, metà uomo e metà regolamento, ha subito la mutazione genetica all’inizio della professione e non reagisce più. Neppure quando la diatriba sul portierato conduce alla cattura di ostaggi da parte di chi pretende il part-time per risparmiare, che tanto possiamo mettere le caselle per Amazon. Può bastare questo, o anche meno, per innescare un odio che sale come un ascensore esterno mai voluto e privo del comando di discesa, che deflagra come una caldaia per cui non si è votata la manutenzione e porta la fotografia del palazzo nelle pagine di cronaca nera cittadina. «Che dice dottore, per i valori immobiliari questa fama sarà un bene o un male?». Anche via Poma era un condominio. Molti assicurano che l’assassino di Simonetta Cesaroni abitava lì. Forse aveva un complice nel palazzo, qualcuno che l’ha coperto. Anche la colpa si divide a millesimi.