La Stampa, 20 dicembre 2022
Jonathan Bazzi è stato aggredito
«Mi attaccano perché dico le cose come stanno. Il problema principale dei posti come Rozzano è che è difficile raccontare la verità. Scattano meccanismi di negazione o di minimizzazione. Ma è impossibile cambiare le cose se prima non vengono riconosciute e dette». Jonathan Bazzi, 37 anni, scrittore candidato al Premio Strega nel 2020 con Febbre, sabato è stato aggredito durante un sopralluogo fra i palazzoni in cui è cresciuto in vista della trasposizione cinematografica del suo romanzo. Nelle ultime ore, dopo che ha denunciato quello che gli è capitato, c’è stato chi lo ha accusato di tornare nel comune dell’hinterland di Milano solo «per specularci sopra».
Cos’è successo sabato pomeriggio?
«Camminavo con il mio ragazzo Marius e con il regista di Febbre che aveva bisogno di scattare qualche fotografia. Due tredicenni in monopattino elettrico, un maschio e una femmina, hanno cominciato a seguirci. Arrivati nella piazza del municipio hanno chiamato altri amici. Poi, hanno raccolto della neve ghiacciata dalla pista di pattinaggio e ce l’hanno lanciata addosso gridandoci contro. A Marius hanno anche tirato una lattina di tè piena rovinandogli la giacca».
Vi hanno aggredito perché vi hanno riconosciuto?
«Credo di no. Penso siano stati attirati dalla macchina fotografica. Io ho cercato di andare avanti e di non calcolarli sperando che desistessero. L’unica cosa che abbiamo capito è che urlavano il nome di Brumotti, l’inviato di Striscia che ha girato alcuni servizi sullo spaccio. Ho avuto l’impressione che volessero difendere il territorio dei pusher. È come se avessero risposto a una chiamata alle armi».
Avete avuto paura?
«Sì, anche perché alla fine erano sette o otto. Ho rivissuto certe sensazioni spiacevoli di quando ero ragazzino. Non abbiamo reagito perché è un attimo che arrivino genitori e fratelli più grandi. Nei cortili delle case popolari ci sono pregiudicati, persone pericolose e violente».
Le ha fatto più male l’aggressione o quello che ha scritto qualcuno sui social?
«Accanto alla solidarietà di tanta gente che capisce il mio lavoro e che apprezza quello che ho scritto su Rozzano e sulle mie origini, c’è anche una parte - che confido minoritaria, ma rumorosa - che produce questo tipo di giudizi e che mi accusa di denigrare il posto da cui vengo. È gente che nega la realtà».
Lei vive a Milano da 15 anni. Perché se n’è andato?
«A Rozzano si è sempre un po’ in allerta, le persone badano molto agli altri e sono sempre pronte a sconfinare negli spazi altrui. A Milano la gente si fa i fatti propri, non passa il tempo a sanzionare ciò che non gli piace degli altri».
Torna spesso a Rozzano?
«Sì, e ci passerò anche il Natale dato che parte della mia famiglia vive ancora lì. Non sono d’accordo con chi dice che la situazione è migliorata. L’immigrazione ha cambiato il paesaggio commerciale, ma l’aggressività di fondo è rimasta la stessa. Rozzano è un enorme agglomerato di 6 mila alloggi popolari. I problemi nascono dall’aver aggregato moltissime persone con situazioni simili e complicate. Questo ha creato una subcultura e dei modi di fare e di pensare che sono completamente diversi da Milano, che pure è a soli 7 chilometri. C’è una grande omogeneità nel coltivare questi disvalori, che partono già dal rapporto con la scuola: molti adulti la vivono come un peso, come un’ingerenza. Difficile che i ragazzini riescano a trovarci un senso».
Dal Comune si sono fatti vivi?
«No. Non ho mai avuto rapporti con l’Amministrazione, ma da quello che mi è parso di vedere il sindaco e chi gli sta attorno coltivano abbastanza questo atteggiamento negazionista. Mi ha chiamato invece il maresciallo dei carabinieri: sa benissimo come stanno le cose, ma ha pochissimi margini d’azione. D’altronde parliamo di un degrado della qualità e delle prospettive di vita che investe intere famiglie».