Corriere della Sera, 19 dicembre 2022
Biografia di Red Canzian raccontata da lui stesso
Il primo ricordo da bambino di Red Canzian?
«Mamma che apriva la finestra e cantava “aprite le finestre ai nuovi sogni, bambine belle, innamorate. E forse il più bel sogno che sognate, sarà domani la felicità”. E quando compravamo il libricino dei testi delle canzoni di Sanremo: le arie erano così facili... “Penso che un giorno così non torni mai più... Volare, oh, oh!”, ti rimanevano in testa, cantavamo come due pazzi».
Dunque i suoi genitori non ostacolarono la vocazione da musicista?
«Papà era un minatore rientrato in Italia da Marcinelle prima del disastro e diventato camionista. Aveva la terza elementare, ma era una grande conoscitore di musica lirica, s’infilava nei loggioni a teatro appena poteva. È stato il mio primo fan, caricava lui gli strumenti nella Fiat 1100 quando facevo le prime serate».
Lei si diplomò geometra, s’iscrisse a Psicologia, quando ha sentito che poteva vivere solo di musica?
«A 16 anni, al Festival Stroppolo d’oro di Conegliano Veneto. Presentava Pippo Baudo. Vinsi. Quella sera, ho capito due cose: la prima, che dal palco mi dovevano tirare giù con le cannonate; la seconda, che dovevo cambiare look, sembravo il figlio segreto di Vittorio Sgarbi, tutto occhiali, un brutto anatroccolo».
Cinque anni dopo, nel 1973, pantaloni a zampa e capelloni, si univa ai Pooh orfani di Riccardo Fogli. Inizia una storia lunga 43 anni, fatta di 80 milioni di dischi venduti. Ricordi memorabili?
«Slegati dalle cose eclatanti. Ricordo di quando a Sofia c’era il comunismo, i supermercati erano vuoti, se bucavi una gomma dovevi comprarla al mercato nero, le spie controllavano cosa ci dicevamo in camera e un ragazzo che mi accompagnò in farmacia fu arrestato perché era vietato parlare con gli stranieri. Lì, un pomeriggio, sotto la neve, in due ore, vendemmo tutti i 24 mila biglietti del concerto. Ricordo di quando vedemmo una casetta nei Balcani che sembrava un quadro naif di Ivan Generalic, ci panificavano e c’era la fila di donne. Scendemmo a prendere il pane, coi capelli lunghi, i vestiti strani: ci guardavano come se fossimo Ufo. Ho ricordi splendidi di Montserrat alle Antille, dove stemmo a casa di George Martin, il produttore dei Beatles, e facemmo amicizia con Sting e la moglie».
Come fu vincere Sanremo 1990?
«Uomini Soli era un pezzo che aveva il Dna da evergreen: dio delle città e dell’immensità, se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi… Cantammo con Dee Dee Bridgewater: una meraviglia. L’ultimo giorno – si votava col Totip – alle tre, avevamo vinto; alle cinque, avevano vinto Mietta e Amedeo Minghi col Trottolino amoroso; alle sei, Toto Cutugno... Non si capiva niente. In hotel, quando ci dissero che avevamo vinto noi, il nostro arrangiatore Emanuele Russinengo fece un salto sul letto e lo sfondò».
Vi siete sciolti nel 2016 con l’addio di Stefano D’Orazio, che due anni fa è morto di Covid. Senza di lui, i Pooh non si riuniranno più?
«Le cose belle devono avere un inizio e una fine. Ma con Dodi e Roby faremo un evento per il decennale della morte del nostro paroliere Valerio Negrini, e resta un’amicizia di quelle che non hai bisogno di appuntamenti per vederti».
Fino a ieri, al Lirico di Milano, è andato in scena il musical «Casanova Operapop», che ha scritto e prodotto. Perché Casanova?
«Iniziai 12 anni fa e mi arenai alla terza canzone perché la trama era ripetitiva: Casanova era raccontato solo come un libertino impenitente, ma io ero convinto che uno non può diventare così famoso solo perché ama le donne. Poi, nel 2018, il libro La sonata dei cuori infranti di Matteo Strukul mi aprì uno squarcio totale: trovai un Casanova filosofo, cabalista, poeta, agente segreto, desiderato in tutte le corti d’Europa. Figlio di un’attricetta, s’intrufolava di nascosto al Teatro Malibran, soffriva di non essere parte dell’aristocrazia. Venezia era in quegli anni la città di Canaletto, Tiepolo, Goldoni e di ebanisti eccezionali. Così, lui partì portando in giro la bellezza italiana. Ho scoperto, e quindi raccontato con Strukul, di fughe, duelli, di un intrigo ordito dall’impero austriaco ai danni di Venezia per annetterla, di Casanova che tenta di sventarlo rapendo una contessa, e che s’innamora di una ragazza di 19 anni e, per amore, cambia».
Lei crebbe in uno splendido palazzo nobiliare veneto. La accomunano a Casanova le origini umili ma a contatto con il bello?
«Villa Borghesan era stata donata al Comune di Quinto di Treviso e messa a disposizione delle famiglie povere. Vivevamo in quattro in una camera e cucina, ma sono cresciuto guardando affreschi meravigliosi con cavalli bianchi e San Giorgio che uccide il drago, e calpestando pavimenti in terrazzo veneziano, circondato da un parco dove ho imparato a riconoscere il tarassaco e il cedro del Libano. Certo, quando penso all’infanzia, vedo le sculture di Canova, non una brutta periferia urbana. Vedo i cancelli con le pigne scolpite nel marmo, i giardini sul fiume Sile, dove poi ho comprato una casa antica... Quella bellezza l’ho sempre cercata e, ora, l’ho messa nel musical. Ho passato la pandemia a filmare Venezia deserta: le immagini, che io stesso ho ripulito da antenne, barche di plastica e fili della luce, sono diventate la cornice immersiva dello spettacolo. Sono stato fra i primi a usare Photoshop, già per copertine e video dei Pooh».
Da ragazzo, molti la consideravano «il bello dei Pooh» e aveva fama di Casanova anche lei.
«Potrei dire che ho scritto un musical sul mio predecessore e mettermi a ridere, ma sono cose che racconti a vent’anni, non a 71. Però, mi sono sempre riconosciuto nel rispetto per le donne di Casanova. Infatti, ho sempre conservato bei rapporti con le mie ex, che le abbia amate per un anno o per un’ora».
Elenco non esaustivo: Marcella Bella, Patty Pravo, Loredana Bertè, Mia Martini, Serena Grandi.
«Non vorrà che parli di loro?».
Solo il necessario.
«Sono stati passaggi di vita ed eravamo ragazzi: avrò avuto l’ultima avventura a 25 anni. E non erano storie droga e rock ‘n roll: sono stato sempre un romanticone».
Converrà che suona diabolico stare con Patty Pravo dopo che Riccardo Fogli se n’era andato dai Pooh per Patty Pravo.
«Fu un caso, lei era molto bella, forse ero bellino anch’io. Ma fu solo il bellissimo e breve incontro di due giovani. Siamo rimasti amici, la chiamo Santa Nicoletta da Venezia, perché portando via Riccardo, mi aprì la via verso i Pooh».
E come conquistò le sorelle Bertè e Martini?
«…Si frequentavano. Ma furono storie diverse, una più fisica, l’altra più intellettuale».
Negli Anni ’90, nascono le cosiddette «canzoni di Canzian», tutti successi ispirati dalla sua seconda moglie Beatrice Niederwieser: «Stare senza di te», «Tu dove sei», «Cercando di te», «Io ti aspetterò»... Che amore è il vostro?
«Dal primo momento in cui l’ho vista, mi sono sentito come investito da un camion. Ma lei era incinta e sposata, io ero sposato. Per dieci anni, ci siamo frequentati in coppia, coi rispettivi consorti. Per me, sono stati anni di attesa. Io ti aspetterò parla di quella fase, dice: sarai, vedrai, sarai la mia donna prima o poi».
E quando lo diventò?
«Finalmente, il 19 ottobre 1992 arrivò a casa da me, a Treviso, con suo figlio Philipp. Anche lei aveva capito che era impossibile non stare insieme. Lì è nata Stare senza di te. Stefano D’Orazio scrisse in modo esatto quello che succede quando ti separi: gli amici che si dividono, l’impossibilità da parte tua di fare una scelta diversa… La cosa meravigliosa è che il papà di Philipp è rimasto il mio più caro amico e che ho ottimi rapporti con Delia, la mia prima moglie. E Philipp e mia figlia Chiara si considerano fratelli da sempre. Ora, tutta la famiglia è coinvolta nel musical».
Sua moglie è coproduttore e i ragazzi?
«Bea è incredibile, è multitasking, segue tutto, cura l’amministrazione, l’organizzazione… Senza di lei, Casanova non esisterebbe. Philipp, che è un batterista e musicista pazzesco e ha studiato e lavorato coi più grandi, ha fatto tutti gli arrangiamenti. Chiara ha cantato i provini per insegnare agli attori le parti. Gli inglesi che pianificano Casanova in Corea, Giappone, Cina e Taiwan, l’hanno voluta come aiuto regista. È in grado pure di sostituire quattro attrici».
Lei come sta dopo il ricovero di gennaio? Al Corriere, aveva detto di aver temuto di morire.
«Molto bene. In estate, ho fatto 35 concerti, ma ho cure per un altro anno e mezzo. Nel 2015, mi era scoppiata l’aorta; nel 2018, ho avuto un tumore al polmone: quelle erano vere malattie, stavolta è stata sfiga… Mi è entrata una scheggia di legno in una mano e ho preso un’infezione da stafilococco aureo. Sono caduto per terra il giorno che iniziavano le prove di Casanova, non riuscivo a stare in piedi, ci ho messo un’ora per arrivare al divano e chiamare i soccorsi. Intanto, avevo febbre e visioni psichedeliche come se fossi drogato. Mi hanno aperto di nuovo il torace, stavo andando in setticemia. Sono finito in rianimazione e, rispetto alle altre operazioni da cui mi ero svegliato lucido, stavo malissimo, vedevo fiori rossi scendere da pareti bianche. Vedevo il parlottare preoccupato dei medici e mi dicevo: rimango così per tutta la vita».
Come si è infilato la scheggia nella mano?
«Costruivo una cornice per il musical nella falegnameria di casa. Sono patito di bricolage. Ovviamente, non ho fatto tutto io. Alla base del musical, c’è un enorme ricerca storica: le scarpe del ‘700 sono state fatte dai ragazzi del Politecnico calzaturiero del Brenta dopo un lungo studio; i costumi da Stefano Nicolao, che ha lavorato per tanti film da Oscar. Questo spettacolo, con protagonista Gian Marco Schiaretti, è un kolossal: 30 cambi di scena, 120 costumi... Crearlo è stato come fare un viaggio bellissimo, ci ho lavorato 16 anche 18 ore al giorno».
La paura di morire l’ha cambiata?
«Sono solo ancora più concentrato ad apprezzare il bello piuttosto che dissipare il tempo».