Il Messaggero, 19 dicembre 2022
La disperazione fa evaporare i giaponesi
Il mio amico Shinsuke, nome inventato, è disperato. Dopo aver perso entrambi i genitori da piccolo in un incidente stradale, ha avuto una vita difficile, intensa, come dire, nel bene e nel male. Una decina di anni fa, pochi mesi prima di andare in pensione, aveva perso il primo figlio: malattia incurabile. Poche settimane fa ha perso anche la seconda figlia. Si è suicidata, in ospedale. Stava male da tempo, alla fine non ce l’ha fatta più: si è chiusa in bagno, si è infilata in testa una busta di plastica e si è lasciata soffocare. Dopo essere sensibilmente diminuiti per alcuni anni, pandemia e crisi economico-sociale stanno provocando una nuova impennata di suicidi in Giappone, da sempre in testa alla classifica di questo triste fenomeno. Che non è l’unico a segnalare il grave disagio in cui versa una società troppo disattenta, spesso crudele, nei confronti di chi rallenta, o peggio ancora, si ferma. Sono oltre 80 mila, in Giappone, i johatsusha, gli evaporati. Persone che, per i più svariati motivi, spariscono. Alcune, grazie alla relativa facilità con la quale si può acquisire di fatto una nuova identità (in Giappone non esiste l’obbligo di possedere o circolare con un documento d’identità, e gli unici con una foto sono patente e passaporto, entrambi facoltativi), riemergono in qualche parte del Paese, ma la maggior parte si ritiene che finiscano per suicidarsi o rientrare nell’altrettanto crescente e particolarmente triste fenomeno del kodokushi, le morti in solitudine. Si calcola siano oramai oltre 20 mila l’anno: persone sole, spesso coppie di anziani che si lasciano morire, di fame e di stenti, nel loro appartamento, e la cui scomparsa viene accertata spesso dopo lungo tempo, a causa della segnalazione dei vicini preoccupati, o disturbati dal cattivo odore.
Conosco Shinsuke da oltre trent’anni: ex docente alle scuole superiori, dirigente sindacale, uomo di grande cultura e sensibilità sociale. Sempre molto impegnato, coinvolto, recentemente anche nel volontariato. Ma anche capace ogni tanto di staccare, ridere, scherzare. Soprattutto, una brava persona, con la quale ho spesso passato delle belle serate. L’ultima, qualche giorno fa, è stata diversa. Era davvero disperato. Anche se sempre lucido, articolato. Tutt’altro che rassegnato. Con il suo consenso, ma senza rivelare il suo vero nome, riporto qui parte del suo sfogo: «Lo so che in Occidente, Italia compresa, avete ancora l’immagine dei giapponesi che si suicidano per salvare l’onore, il famoso harakiri. Ma guardate che è roba del passato. Magari ci fosse ancora qualcuno che decide di togliersi la vita per pagare un grave errore o assumersi delle responsabilità: noi crediamo che la vita ci appartenga, non abbiamo remore morali o religiose. Se un politico corrotto si suicida a me andrebbe anche bene. Uno di meno Ma qui parliamo di un altro tipo di suicidio. Quello per motivi economici, sociali. E quello dei giovani. Siamo il Paese industrializzato con il più alto tasso di suicidi al mondo, e il suicidio è la prima causa di morte per la fascia giovanile tra i 10 e i 25 anni, quella alla quale apparteneva mia figlia. Tutto questo non è normale. E soprattutto, non è accettabile.
Chiedo a Shinsuke: molti però pensano che tutto questo sia anche un po’ colpa vostra, di una generazione che dopo aver sognato la rivoluzione si è rassegnata alla logica dello sviluppo senza limiti, alla schiavitù del lavoro, penalizzando i rapporti sociali e familiarine abbiamo parlato tante volte. Risponde: «Hai ragione. Abbiamo gravi colpe. Abbiamo pensato che non avendo trovato le risposte giuste non avevamo nessun diritto di proporne ai nostri figli. E con la scusa di rispettarne la privacy e la libera scelta li abbiamo di fatto abbandonati. È un circolo vizioso, una catena dell’abbandono progressivo: lo stato abbandona i cittadini, le aziende abbandonano operai ed impiegati, e noi abbandoniamo i nostri figli e i nostri vecchi non è un bello scenario».
Soprattutto, aggiungo, perché anche qui da voi la povertà avanza: siete stati, assieme all’Italia, in corsia di sorpasso per molti anni, eravamo due Paesi modello, con la cosiddetta classe media in espansione e il fattore Gini (Il coefficiente di Gini è una misura statistica messa a punto nel secolo scorso dall’omonimo sociologo italiano, e che misura la distribuzione del reddito in una determinata società. Una sorta di termometro della diseguaglianza che descrive quanto omogenea o diseguale il reddito o la ricchezza sono distribuite tra la popolazione di un Paese) in picchiata. Ora, quanto a distribuzione del reddito e disuguaglianza sociale, siamo tornati ai livelli di un secolo fa, se non di più. «Proprio così. Pensa al nostro reddito pro capite: negli anni ’90 era diventato il quarto, forse il terzo al mondo. Ora siamo precipitati al 27mo posto, appena sopra l’Italia, che è al 28mo posto. Non hai idea di cosa significhi, tutto questo: migliaia di famiglie disperate, costrette a svendere le case acquistate con mutui che non si possono più permettere di pagare, condizioni di lavoro sempre più dure e precarie. Per non parlare dei veri e propri licenziamenti, in una società dove gli ammortizzatori sociali sono pressoché inesistenti o comunque di complicata attivazione. Certo che non facciamo più figli. A parte l’impegno economico che richiede, non è bello vivere nel terrore che si suicidino.».