il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2022
Reddito, cosa fanno gli altri Paesi Ue
Secondo il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, 846mila persone perderanno l’accesso al Reddito di cittadinanza (Rdc) durante il 2023: l’articolo 59 del ddl Bilancio fissa infatti il limite di otto mensilità per gli individui appartenenti a nuclei familiari in cui non siano presenti minori, persone con almeno 60 anni e disabili. Il taglio del governo Meloni si appoggia su due pilastri non sempre messi a fuoco: 1) il sostegno non deve andare ai cosiddetti “occupabili”; 2) non deve avere durata illimitata. Pochi hanno analizzato cosa fanno gli altri Paesi europei su questi punti specifici, ma una comparazione internazionale è utile per capire se il Rdc è veramente un’eccezione come di fatto sostiene il governo.
In Francia il Revenu de solidaritè active (Rsa) è una misura di contrasto alla povertà che stabilisce che ogni persona residente nel Paese in modo stabile abbia il diritto a un minimo di risorse che consenta al suo nucleo familiare di condurre una vita degna. L’ammontare (montant forfaitaire) viene stabilito annualmente per legge. Diversamente da quanto avverrà nel nostro Paese, il diritto a queste risorse prescinde dallo status di occupabilità del richiedente – che rileva solo al fine della predisposizione di un percorso personalizzato per il ritorno al lavoro – e non ha limite temporale se non quello determinato dalla persistenza del bisogno (che viene riesaminata periodicamente). Inoltre, l’importo viene aggiustato ogni anno rispetto all’inflazione (al contrario del Rdc che non è mai stato aggiornato). In concreto, il Rsa garantisce un reddito mensile fino a 599€ euro per un single, 898€per una coppia senza figli e 1.257€per una coppia con due figli.
In Germania è stata approvata da poco una riforma importante che ha istituito il Bürgergeld (letteralmente “reddito dei cittadini”), una misura sociale rivolta proprio alle persone abili al lavoro che si trovano in uno stato di necessità. Esso va a riformare il discusso sussidio “Hartz IV”. In Germania, la protezione di ultima istanza del reddito è affidata a un sistema di schemi categoriali, che pur essendo leggermente diversi stabiliscono tutti un diritto soggettivo a un ammontare di risorse considerato sufficiente per soddisfare i “bisogni standard” (Regelbedarfe). Questo livello viene stabilito sulla base della spesa effettiva delle famiglie a basso reddito e rivalutato annualmente in base alla variazione dei prezzi (70%) e dei salari (30%). Una differenza notevole rispetto al nostro RdC. Come in Francia, la durata dei vari benefici è vincolata solamente alla persistenza della condizione di bisogno (che viene rivalutata, di norma, ogni 12 mesi). La recente riforma, contrariamente a quanto avviene in Italia, è fortemente migliorativa sotto tre aspetti: aumento della prestazione (oggi 502€euro al mese per i single e fino a 1.742 per una coppia con due figli); aumento della quota esente di patrimonio (soprattutto nei primi due anni di sussidio); riduzione delle sanzioni in caso di mancata accettazione di un’offerta di lavoro. L’obiettivo di fondo non è il repentino reinserimento nel mercato del lavoro (a ogni condizione) ma la costruzione di una reale possibilità di occupazione di qualità attraverso la formazione. La riforma va nella direzione opposta a quella prospettata dal governo Meloni.
In Spagna è stato approvato nel 2021 uno schema di reddito minimo nazionale – Ingreso Mínimo Vital (Imv) – che si va ad aggiungere al vasto e assai difforme panorama degli schemi di reddito minimo delle varie comunità autonome. Come nel caso di Francia e Germania, l’Imv non fa alcuna distinzione tra occupabili e non pone limiti alla durata del sussidio se non quello della persistenza del beneficio. Oltre alla residenza in Spagna, infatti, il principale requisito di accesso al sussidio è la condizione di vulnerabilità economica. Gli importi garantiti nel 2022 variano dai 533 euro€ al mese per i single ai 1.013 per una coppia con due figli (una rivalutazione dell’8,5% rispetto al 2021).
È bene ricordare che questa comparazione non intende stilare una classifica. La somma massima del Rdc, ad esempio, è più generosa verso i single e meno verso le famiglie numerose rispetto a quanto avviene in altri Paesi. Il punto che si voleva sottolineare è un altro: gli schemi di reddito minimo universale sono presenti in moltissime altre nazioni e, molto spesso, i requisiti di accesso e l’intero disegno di policy sono meno severi del nostro. Allora la domanda è: se la riforma Meloni non serve a modernizzare il Paese e il risparmio è minimo (743 milioni per il 2023), qual è il vero obiettivo? Come ha spiegato lo stesso governo, la finalità è “educativa”. Di fatto si spostano i rapporti di forza economici verso i più ricchi: il reddito, infatti, è anche potere e toglierlo ai più poveri significa esporli al ricatto dello sfruttamento e della precarietà, “educarli” a un sistema iniquo.
In un mercato fortemente integrato, a libera circolazione di capitali, in cui lo Stato ha spesso poca manovra di azione rispetto ai grandi conglomerati finanziari, uno schema di reddito minimo universale è una misura sociale di base, un paracadute indispensabile. Questo è ormai ampiamente riconosciuto nel dibattito teorico e politico internazionale. Società con disuguaglianza alta e disoccupazione persistente hanno bisogno di una protezione universale contro la povertà per evitare la disgregazione del tessuto sociale. Tutti noi auspicheremmo un Paese con piena occupazione di qualità. Intanto, però, sarebbe bene garantire a tutti un livello minimo di risorse: senza, gli “scarti” – per usare un’espressione cara a Papa Francesco – verrebbero lasciati ai margini della società e anche il sistema economico diventerebbe un luogo peggiore.