il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2022
Intervista a Luca Ricolfi
Le modalità della corruzione all’europarlamento, quelle banconote impilate in buste di plastica, fanno riprovare l’orribile odore di refurtiva. Deputati che si comprano e si vendono. Professor Ricolfi, la società italiana non muove un dito, sembrerebbe anche che non ne abbia alcuna voglia. È questa la società dell’indifferenza e dell’afasia?
La società italiana, già poco incline alla partecipazione, è stata anestetizzata da un quindicennio di non-politica. Dal 2006 a oggi si sono succeduti una decina di governi, nessuno dei quali è stato capace di portare a termine un programma sulla base di un mondato popolare. Ci hanno dimostrato che la politica non è nelle nostre mani, è logico che la guardiamo con scetticismo e disamore.
Eppure l’Italia, in termini di reputazione, pagherà caro questi fatti.
Prima ancora del Paese, credo che sarà il governo Meloni a risentirne. Perché a livello europeo non si parla della corruzione dei socialisti, ma del cosiddetto italian job: i soliti italiani. Forse anche per questo il centro-destra non cavalca lo scandalo.
Lo scandalo di Bruxelles intreccia un altro scandalo, molto nostrano, che pure ha colpito al cuore la sinistra: quella della famiglia di Aboubakar Soumahoro. Qui la vicenda, che ha caratteri parossistici, è dentro il filone della commedia all’italiana. Il migrante che dà voce agli invisibili e poi si ritrova invischiato in attività familiari non propriamente commendevoli.
Visto con l’occhio del sociologo, il fenomeno Soumahoro non è certo sorprendente. È da trent’anni che studiamo l’industria della bontà e i suoi meccanismi. È difficile accettarlo, ma la realtà è che le organizzazioni benefiche, che siano cooperative, Ong o altro, sono innanzitutto burocrazie il cui primo interesse – come quello di qualsiasi burocrazia – è sopravvivere, e possibilmente ingrandirsi rastrellando fondi. A questo scopo hanno bisogno di procurarsi dei testimonial, che recitano per loro spot gratuiti (la Bonino nel board di una Ong, la Boldrini che consegna un premio alla miglior imprenditrice straniera, eccetera). Ma nessuno controlla mai che cosa fanno esattamente le industrie della bontà, proprio perché i buoni sono al di sopra di ogni sospetto. Accade così che i molti buoni veri paghino per le colpe dei pochi buoni finti. Che, attenzione, non necessariamente sono dei corrotti o dei truffatori, possono anche essere semplicemente persone che si concedono un lauto stipendio per occuparsi degli ultimi. Che, a occhio e croce, mi pare il caso delle due signore della vicenda Soumahoro.
Professore, senza la biancheria sexy della moglie di Sumahoro, le borse firmate e soprattutto il colore della pelle, gli italiani si sarebbero così tanto appassionati alla vicenda?
No. Ma la vera fonte dell’interesse è il contrasto fra la missione della cooperativa e la vita a quanto pare piuttosto spensierata delle sue amministratrici.
Siamo alla riedizione della questione morale. Ma non c’è nessuno che se ne voglia occupare. È un morto lasciato in cantina.
Sì, ma io il clima di “Mani Pulite” me lo ricordo. C’era indignazione, però il vero carburante della protesta era la speranza di cambiare, di voltare pagina, di liberarci del pentapartito. Io avevo smesso di far politica da 18 anni, ma in quel clima sentii il bisogno di tornare ad impegnarmi (fu allora che scrissi L’ultimo Parlamento, una requisitoria contro la corruzione dei partiti). Oggi c’è indignazione, ma la speranza di un vero cambiamento è estinta.
Gramsci la chiamava indifferenza. Un liberale come lei con quali parole definirebbe l’astenia della società italiana?
Adattamento. Lo diceva già Gianni Brera che “l’Italia è un Paese femmina”, che gioca di rimessa e si modella su chi ha di fronte.
Una democrazia può reggere a così tanti colpi alla sua credibilità? È il passato che ritorna e non ci lascerà mai più?
La democrazia è a rischio per ragioni ben più serie, nel breve periodo chi rischia davvero è il Pd.