Giulia Zonca per “la Stampa”, 19 dicembre 2022
“MESSI OGGI È DEL QATAR, IL MEDIO ORIENTE LO HA ANNESSO ALLA FAMIGLIA REALE” - “LA STAMPA”: “PER CHI AVESSE DEI DUBBI IN MERITO A CHI LO PAGA, BASTA VEDERLO NEL MOMENTO IN CUI RICEVE UFFICIALMENTE LA COPPA DALL'EMIRO CAPO TAMIM BEN HAMAD AL-THANI. INDOSSA, MEGLIO, DEVE INDOSSARE IL BISHT, LA VESTE TRADIZIONALE CHE GLI UOMINI ARABI PORTANO PER LE GRANDI OCCASIONI. HA A CHE FARE CON CERIMONIALI LEGATI A POLITICA E CLERO. IL QATAR GLI PAGA LO STIPENDIO AL PSG, L'ARABIA SAUDITA LO FORAGGIA COME UOMO IMMAGINE E LUI METTE SU IL BISHT INSIEME CON L'UNICA ESPRESSIONE SCHIFATA DELLA SERATA..." -
Adesso finalmente è solo. Lionel Messi senza più confronti, privo di passato, fuori dalle ombre lunghe di chi lo ha preceduto, dalle rivalità che lo hanno spinto a moltiplicare i numeri: campione del mondo con un'Argentina tutta sua. Unico, libero, felice. Il bacio al trofeo che ha inseguito per tutta la carriera lo dà in privato davanti a uno stadio stracolmo, più di 80 mila persone dentro e 4 miliardi fuori a guardare la tv: un attimo di assoluta intimità sfacciatamente pubblica.
Un travolgente, passionale bacio dato all'ossessione inseguita per una vita intera, un amore fino a qui non corrisposto e impossibile da dimenticare, nonostante plurimi tentativi di pensare ad altre vittorie. Infinite e mai abbastanza intense per soddisfarlo.
Messi bacia il Mondiale prima di sollevarlo, prima di condividerlo, ci appoggia le labbra sopra quando sfila a ritirare il premio di migliore in campo, da solo. E si gode quell'attimo con gli occhi che gli brillano, senza l'idea di una lacrima. Smetti di piangere Argentina, che sarà ancora populismo e garra e cancha e hinchas e «Muchachos», «Tierra del Diego y Lionel. De los pibes de Malvinas...», come recita la canzone con cui il tifo saluta il trionfo atteso 36 anni, ma stavolta senza strazio. Nessuna faccia devastata da una beatitudine che rende troppo sensibili. Stavolta si ride.
Siamo al Lusail Stadium e l'Argentina ha appena battuto la Francia 7-5, ai rigori. Messi ne segna due: uno in partita, tra i più glaciali mai visti e uno nel duello testa a testa contro Mbappé dagli 11 metri dopo aver piazzato pure una rete su azione, quando ormai ha in testa solo un'idea: vincere. Non ha fatto altro e l'abitudine si vede pure quando tutto finisce e lui è finalmente pronto.
Non avrebbe accolto così il successo otto anni fa quando ha perso la prima occasione, né nel 2010, quando Maradona era ct e gli toglieva l'aria, né nel 2018 delle faide interne che non ha mai avuto voglia di domare e di sicuro non nel 2006 dell'esordio. Gli serviva passare da lì, cinque edizioni mondiali, 26 presenze, più di chiunque altro e del resto comanda ogni statistica.
Il più coinvolto nelle azioni decisive, 12 gol, 7 solo in Qatar e 8 assist (3 qui), il più premiato per incisività nelle singole partite, quello con più minuti, più palle toccate, più giocate uomo contro riuscite, solo che dopo decenni a contare ogni record ha esaurito le cifre da aggiornare e non ha nemmeno più voglia di smettere, di chiudere con la nazionale: «È l'ultima partita a un Mondiale e la regalo alla gente, ma non mi ritiro, voglio indossare la maglia dell'Argentina da campione».
Purché sia solo per lo sfizio perché non vogliamo vederlo invecchiare mentre gioca. Ci piace così, rannicchiato su un prato da quanto se la gode, appagato. Ad abbracci esauriti e mucchi selvaggi sciolti, a rete tagliata e coppa alzata in ogni angolo, portato in trionfo, forse non dovrà nemmeno camminare mai più, Messi si lascia cadere a terra e non è per sfinimento. È piacere: «Lo sapevo che Dio mi avrebbe dato questa gioia. ho avuto la fortuna di conquistare ogni titolo ma volevo arrivare qui. Ora mi diverto».
La prima volta in cui ha assaporato l'idea era un bimbo, a Rosario, dove è nato in un barrio decisamente pericoloso, uno di quelli dove i supermercati hanno il metal detector e le sbarre. Messi già strabiliava e prima di risolvere i problemi alla schiena, di firmare un contratto su un tovagliolo di carta ha detto: «Voglio vincere il Mondiale».
Poi è partito per Barcellona, a 13 anni, lì lo hanno fatto crescere in centimetri e qualità, ne hanno esaltato il talento e rapito l'anima. Almeno secondo il racconto popolare che da Riquelme a Tevez ha sempre chiamato altri a guidare il popolo. Perché Messi era di Barcellona.
Oggi è del Qatar, per chi avesse dei dubbi in merito a chi lo paga, basta vederlo nel momento in cui riceve ufficialmente la coppa dall'emiro capo Tamim ben Hamad al-Thani. Indossa, meglio, deve indossare il bisht, la veste tradizionale che gli uomini arabi portano per le grandi occasioni. Ha a che fare con cerimoniali legati a politica e clero: il Medio Oriente ha annesso Messi alla famiglia reale.
Il Qatar gli paga lo stipendio al Psg, l'Arabia Saudita lo foraggia come uomo immagine e lui mette su il bisht insieme con l'unica espressione schifata della serata. Tanto non lascia traccia, cancellata dalla grazia. Più nulla incide sul Messi campione del mondo, è oltre ogni giudizio. Pure quello morale, ammesso che ne esista una dietro le sue firme. Messi è solo, lui e il Mondiale, lui e l'Argentina e non c'è più un paragone che tenga, lui e la famiglia che lo segue in campo, lui e una moltitudine che lo lascia comunque solo a cullare i sogni di gloria.
Ora sono realizzati e può riviverli all'infinito e non importa quanta gente ha intorno, resta una storia a due, lui e la magnifica ossessione. Non con Ronaldo, incrociato per decadi e ora a distanza e non con Mbappé, che probabilmente ha già preso il suo posto al centro della scena del calcio. Non con Maradona, con buona pace delle sentenze nostalgiche. C'è solo Messi e il Mondiale uniti da un bacio travolgente che gli resterà addosso in eterno.