La Stampa, 19 dicembre 2022
Perché a Maurizio Maggiani piacciono i presepi
Sono un costruttore di presepi; di più, in questi giorni di Avvento io sono l’Uomo del Presepe, l’unico che la famiglia e il circondario intero riconosce come artefice autorizzato al compimento della grande opera, l’edificazione di un teatro di divina ispirazione. Sono uomo di poca fede e scarsa virtù, non dovrebbe essere così, non dovrei avere questo presepiale trasporto, eppure, a pensarci, non è neppure la mia una passione, ma una forma di coazione, una necessità che all’occhieggiare pallido del solstizio d’inverno si fa impellente.
Quest’anno ho gettato le fondamenta per l’Immacolata, che qui da noi più che la venerazione per una Madonna concepita fuori dall’umanità è la concupiscente partecipazione alla Fiera del Torrone, e ho einstenianamente concluso la sfera del cielo stellato solo ieri notte, per tutto questo tempo mi sono nutrito con parsimonia, ho dormito con monacale moderazione e ho interagito con il mondo il meno possibile, qualcosa come un ritiro spirituale, dove il mio spirito si è compendiato tutto quanto alitato nelle mie mani, delicate mani di un costruttore di presepi.
Il presepe, il mio presepe, è attualmente conservato in sette scatole di legno, vecchie, affidabili custodie ereditate da un vinaio fallito, per le figure e le ambientazioni e due grosse borse di tela per i cieli e le terre. Non è sempre stato così, il mio presepe è stato edificato nel corso dei decenni, una figura per anno, figure molto costose nello stile beneventano, terracotta e cartapesta dipinte, acquistate non senza qualche sacrificio un anno via l’altro in una bottega evocativamente infrattata nel budello genovese di Soziglia.
Tutte tranne il bambinello, un paffuto bambin Gesù di gesso dipinto già segnato da innumerevoli incidenti, quello l’ho trafugato dalla mia casa natale il giorno che me ne sono andato per la mia strada appesantito da un borsone di tela militare inzeppato dei miei averi; avevo diciott’anni, un lavoro e una denuncia per sediziosi tumulti politici, mi apprestavo a fare la rivoluzione e il mio primo presepe. Da lì in poi nella mia vita ci sono stati dodici traslochi, non pochi tra questi somiglianti a esodi e naufragi, mi sono lasciato dietro molto, a volte quasi tutto, ma nel borsone c’è sempre stato modo di mettere al sicuro il mio presepe, fino agli agi della mia tarda maturità, quando i miei ultimi traslochi si son fatti più pacati e ben più voluminosi, il borsone militare un oggetto di culto memoriale e il presepe un bagaglio di notevole ingombro.
Naturalmente mi sono interrogato più di una volta sulla natura di questa mia coazione presepiale. Sì, certo, c’era stata la mia infanzia e in quell’età di ristrettezze i giorni della natività erano gli unici di abbondanza e smemoratezza, la famiglia, una larga famiglia di quattro generazioni tutte assieme a tavola, ci arrivava dopo un anno di penoso faticare; ma alla fine il premio era grande, c’era abbondanza di cibi festivi e buoni odori ovunque e la stufa accesa giorno e notte, c’erano regali, c’era addirittura un regale puntale di vetro colorato per l’abete cresciuto in un bigoncio, e c’era il presepe. E dunque mio padre che la prima domenica buona mi prendeva e mi portava con lui in cerca dell’erbino e della ghiaietta fine di fiume, e la sera c’era da dipingere a montagne e vallate la carta da macellaio, la carta velina da riempire di stelle, case e mulini e osterie da ritagliare nel cartone; e infine la scatola delle statuine, proletarie figure di gesso che prima di me probabilmente avevano visto mio padre bambino, la dolce e severa disciplina di toccarle e sistemarle al loro posto senza offendere la loro delicata materia. Certo che tutto questo resta, da cos’altro dell’infanzia val la pena di essere segnati, poterlo ricordare per sempre è un riparo, e ricordare il padre per questa sua eccezione dalla quotidiana alterità un buon motivo per riuscire alla fine a volergli bene.
Ma non mi basta, fosse così non sarei ancora per strada, zoppicante ma pur sempre sulla mia strada, mi sarei fermato da un pezzo rintanato nei bei tempi andati; no, un costruttore di presepi non vive dei fantasmi dei natali passati, ma guarda avanti, apre le sue scatole e vive di quello che le sue mani faranno accadere. E ora guardo il lavoro compiuto, per l’ennesima volta sempre lo stesso e sempre diverso, sempre la stessa storia ogni volta disciplinata in una nuova variate, un personaggio in più, un cielo più chiaro, un giogo di montagne più ardito, meno deserti e più boschi, meno boschi e più deserti, e so perché è stato fatto, perché ho preso una settimana di ciò che mi resta della mia unica e irripetibile vita e me la sono regalata. Perché questo struggente teatrino è l’unico modo che ho per mettere tutte le cose a posto, un intero mondo senza il disordine del mondo.
C’è una prospettiva, il suo fuoco è laggiù in un anfratto quietamente dormiente su un fastello di paglia, è carico di mistero, suo padre Giuseppe lo sente e forse non capisce e se ne sta un po’ discosto, ma sua madre Maria, lei sa ogni cosa e non pensa che a ninnarlo; è un mistero che non dà spavento né l’ombra di angoscia, per questo i pastori si sono messi in cammino con passo sicuro, gli agnelli in spalla, le greggi ben pasciute, il fabbro batte il suo martello per forgiare una campana che ne risuoni, il fornaio ha appena sfornato un cesto di pani che ha posato sulla strada perché chi ha fame ne prenda, il falegname sta preparando una sedia per chi volesse riposarsi un po’, il nero jettatore carico di corni e cornetti sta all’erta sulla cima di una montagna per cacciare il malaugurio casomai si facesse strada nella confusione. Anche il mendicante con la sua scodella è in cammino, e sa che troverà chi gliela riempia, gli zampognai hanno già preso a suonare le loro vecchie melodie, non c’è come la musica che s’intoni a un mistero; certo, ci sono anche i ricconi, ancora lontani, drappeggiati di oro e di seta, ma sono in viaggio per andare a spogliarsene davanti a un neonato mezzo nudo.
Tutto è immobile nel suo interiore movimento, tutto è equilibrio nella buona ragione. Sarebbe solo un esercizio patetico se non avessi coscienza che quel bambinello è lì proprio per sovvertire ogni ordine stabilito, generare il grande disordine nei poteri costituiti; se ne andrà in giro per le strade della Galilea annunciando la più grande delle rivoluzioni, che non sarà a data da destinarsi ma domani, così imminente che non vale neppure la pena di seppellire il proprio padre, così ardente da non ammettere nulla che sia di intralcio o anche solo superfluo al suo compimento, compreso un cambio di abiti, qualche po’ di denaro per comprarsi da mangiare. Sarebbe solo patetico se il mondo perfetto che ho edificato, e mi ostino a riedificare ogni inverno come non fosse mai successo prima, non fosse che l’ineffabile istante di immobilità che annuncia il Grande Rivolgimento.
Ho poca fede e quella poca la riserbo per questo. Per questo, se non lo difendessi il mio presepe dalle ingiurie della ragionevolezza, se non mi ci dedicassi con la convinzione della indifferibile necessità, altro non sarebbe che una pagliacciata tale e quale il sistema da cui mi difende. Per questo, stamattina, ascoltando il primo notiziario, mi sono trattenuto dal prendere e buttare tutto quanto all’aria.