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 2022  dicembre 18 Domenica calendario

In morte di Mario Sconcerti

Mario Sconcerti sapeva, conosceva, insegnava. E qui nasce il guaio: era inimitabile, uno stile che scorreva veloce, sempre ricco di immagini originali, coraggiose, personali, dove tutta la cultura di Mario emergeva elegante, mai prepotente. La tentazione di copiare è forte, anche nel giornalismo, un errore grave farlo con i fuoriclasse. E quanto a giornalismo, materia complessa, lui era un numero 10, alla Rivera, alla Platini, nel caso di Mario forse è più appropriato citare Giancarlo Antognoni, fiorentino come il «Navarro», così Gianni Brera, il più grande di tutti, aveva battezzato il giovane Mario Sconcerti. Brera aveva capito subito il talento di Sconcerti, capace nella sua generosa carriera di andare oltre calcio e sport, chiamato da Scalfari per guidare le pagine sportive di Repubblica, ha diretto il Corriere dello Sport, il Secolo XIX, vicedirettore alla Gazzetta dello Sport, opinionista televisivo a Sky, alla Rai e a Mediaset, dal 2006 editorialista al Corriere della Sera, dove è stato amico, maestro, compagno di avventura, regista dall’assist facile, fare gol con lui era un gioco da ragazzi.
Gli ultimi giorni sono stati faticosi senza la sua firma, noi tutti, al Corriere e nella redazione sportiva, eravamo un po’ in ansia perché a inizio Mondiale lo avevamo sentito stanco, con una voce flebile, sottile, facile capire che non fosse in forma, e il suo ricovero ospedaliero non ci aveva colto di sorpresa.
Ma sapevamo che sarebbe stata una tappa di pianura, per sistemare un po’ di cose, in particolare quel rene che faceva i capricci. E con sollievo giovedì mattina lo avevamo sentito, confortato, la sua voce era tornata quella di prima, forte e chiara: «Daniele mi spiace stare lontano dal giornale e dal Mondiale, guarda che domani mi portano il computer e ho un’idea, per un pezzo...». L’idea era vincente e il pezzo sarebbe stato come sempre importante. Lo attendevamo felici quel pezzo, convinti che il direttore ormai si stesse rimettendo. La convinzione diventa sicurezza quando venerdì sera, una donna fantastica, Rosalba, moglie, compagna, assistente, telefonista, amica nostra, ci ha chiamato e, rassicurata dal miglioramento del suo Mario, ci diceva: «Sai Daniele che le cose stanno andando bene, gli esami sono a posto, i parametri sono tornati alla normalità, tra pochi giorni, martedì-mercoledì, Mario sarà dimesso...». Ieri l’irreparabile, quel cuore che si ferma, che non riparte più, i soccorsi inutili, medici e assistenti che scuotono la testa, la disperazione di mamma Rosalba e Martina, la loro figliola.
Mario Sconcerti era cresciuto a bordo ring, seguendo papà Adriano, procuratore di campioni come Sandro Mazzinghi, amava lo sport, lo studiava da sempre, innamorato della Fiorentina, ne era diventato addirittura amministratore delegato, erano i tormentati tempi di Cecchi Gori, ma la sua forza era quella di saper raccontare. Con delicatezza, con garbo, mai col veleno. Naturalmente non temeva la polemica, se era necessaria usava anche quell’arma tattica, era stimato da molti tecnici, con lui si confidavano. Un sottile piacere leggerlo e titolarlo, non accadrà più maledizione, ma la lezione di Sconcerti, umana e professionale, resterà per sempre. Che fortuna aver lavorato con lui.



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Emanuela Audisio per la Repubblica
Mario se n’è andato a dicembre, a pochi giorni dall’anniversario di Brera (30 anni, domani) e alla stessa età di Mura, 74. Era la sua squadra, era stato lui a volerli, lui era il ct. Questo giornale deve a Sconcerti l’invenzione dello sport di Repubblica e tanto altro. Era figlio di un manager di boxe, Adriano, che seguiva Mazzinghi, e raccontava della delusione di quando nel match contro Benvenuti chiese «papà si vince stasera?» e l’altro con la testa gli fece segno di no. Mario aveva iniziato da giovane alCorriere dello Sport ,era sempre a Coverciano e Valcareggi lo chiamava affettuosamente Sconcertino. Era fiorentino, tifava per la Fiorentina (di cui è stato direttore generale con Cecchi Gori), non l’ha mai nascosto, ma era un tifoso non di parte.
Volle anche Fossati, per il ciclismo. E poi arrivò anche Clerici. Non era geloso delle grandezze altrui, anzi si divertiva a gestirle e ad esaltarle. I suoi confronti erano sempre alti: Attila, Napoleone, le storie dei popoli, Leopardi, Michelangelo, deviava dallo sport per metterci dentro quello che aveva imparato e elaborato dai tanti libri che leggeva di notte. Era insonne, divorava pagine, rileggeva le grandi battaglie, dagli Orazi a Little Big Horn, trascriveva schemi, studiava il calcio. Diceva cose bellissime, le sue ultime frasi scritte: «Il divertimento del calcio è che c’è sempre un margine di miglioramento imprevisto da aggiungere. Di solito è la parte migliore».
Ci ha insegnato a non avere paura della cronaca, perché non esistono piccole storie, e anche un raffreddore raccontato bene, fa star male chi legge. Ci ha invitato a partire, sempre, ogni volta, ad andare alla stazione a prendere il primo treno, perché le cose andavano viste, e a non avere paura di esprimere quello che uno sentiva dentro. «Resisti, Niki» era un suo titolo su Lauda. Odiava la banalità, la scontatezza, il politicamente corretto. Amava i moti del cuore, tutto quello che sta per succedere, insegnava che bisogna andaresull’Arno che cresce di notte, perché la paura è un sentimento reale e non aspettare il giorno dopo per scrivere «ieri il fiume è uscito dagli argini».Era divertente lavorare con lui. Siviveva di passioni, di fatiche, di eccessi, di costruzioni. Era autocritico: «Oggi abbiamo giocato per il pareggio ». Credeva nelle notizie, nei fatti, che non andavano mai nascosti, ma anzi rilanciati. Non avevapaura della retorica, di essere umano, di dire da che parte stava, quasi sempre sceglieva quella più difficile e impossibile, forse anche per il gusto di sorprendere. Era bello anche dissentire da lui. Ai Mondiali dell’82 con la Nazionale di Bearzot in silenzio- stampa lo dovettero separare da Tardelli che l’aveva provocato, ma poi da toscani fecero pace e lui ammise che certe reazioni è meglio non averle. Ma lui le aveva, non ci rinunciava.
In una Repubblica che ancora non usciva il lunedì e dove lo sport non era considerato cultura andò nella clinica dove lo sciatore Leonardo David, dopo una caduta, viveva in stato vegetativo, e scrisse un grande pezzo che gli valse i complimenti di Miriam Mafai. Finalmente lo sport (e i suoi giornalisti) era stato capito e accettato ai piani alti.
Ora si parla di uguaglianza di genere, ma è bene far notare che Sconcerti ovunque ha lavorato ha sempre assunto e valorizzato donne. Scalfari nell’88 lo mandò a Firenze ad aprire la redazione locale, in via Maggio 35 mancavano le sedie, ci si sedeva sugli elenchi del telefono, le macchine da scrivere erano difettose, come le stampanti. Ma non aveva importanza. Firenze sperimentava la fecondazione assistita. Careggi, 31 marzo ’89: il primo bimbo nato in provetta in Toscana. A Mario non parve vero. Il nostro giornale titolò: «Ecco Lorenzo, è Magnifico». Sapeva ragionare, scrivere, commentare, capire, dirigere, ma era anche un eccellente titolista. Ha scritto molti libri, ha fatto la storia del giornalismo: a Roma, Genova (Secolo XIX ),Milano (Gazzetta dello Sport eCorsera ), in tv alla Rai, Sky e Mediaset. Forse le sue domande non piacevano ai club, ma chi segue il calcio non vedeva l’ora di avere delle risposte da Sconcerti. I suoi podcast per il sitoCalciomercato erano diventati uno spazio di libertà e di riflessioni filosofiche. La sua parola preferita, la più usata, era: diversità. Forse perché lui era il più diverso. Diceva del giorno in cui sarebbe morto: «Piangerai, non ce la farai a scrivere».