Corriere della Sera, 18 dicembre 2022
Biografia di Daniele Adani raccontata da lui stesso
Adani poeta: «Messi dona amore, dribbla anche i cammelli del deserto...».
«Ha fatto di più: per preparare l’assist del 3-0, ha portato a spasso lungo tutta la fascia il più forte difensore dei Mondiali, Josko Gvardiol. Ha fatto una giocata di forza, non da Messi. In quel momento c’era Maradona in lui».
Adani profeta: «E Diego disse: dopo di me verrà un altro numero 10...».
«Da due anni, da quando è morto, non c’è giorno che io non pensi a Maradona».
I telespettatori protestano.
«I telespettatori vogliono emozioni».
La Rai non le farà commentare la finale dei Mondiali.
«Mi hanno insegnato che quando il mister ti manda in panchina non si chiede mai perché».
La finalina per il terzo posto non è da Adani.
«Non era previsto che commentassi la finale. Ho fatto 14 telecronache. Un’esperienza stupenda; già mi manca. Una grande spedizione: Donatella Scarnati, Alessandro Antinelli e tutti gli altri hanno fatto un lavoro straordinario».
Fabio Caressa le ricorda che un conto è commentare per gli appassionati di Sky, un altro per il pubblico generalista.
«L’ho sentito dire anche in Rai. Ma pure il pubblico generalista è appassionato di calcio. Legga i messaggi che ricevo. Decine al giorno. Mi scrivono per ringraziare, commentare, chiedere aiuto...».
Aldo Grasso l’ha difesa.
«Mi ha fatto molto piacere. Ma io non cerco il consenso. Cerco il dissenso. Quando hai dieci milioni di persone davanti al video, devi trasmettere loro qualcosa».
Qual è il suo primo ricordo?
«Spagna 1982, Italia-Brasile. Avevo otto anni. Papà e lo zio si abbracciavano ai gol di Paolo Rossi. Fu allora che compresi l’immensità del calcio. Il suo segreto».
Qual è il segreto?
«Il legame tra quel che senti guardando i campioni, e quel che senti giocando per strada».
Lei ha iniziato nella Sammartinese.
«E ho finito nella Sammartinese. Il più clamoroso dei salti all’indietro: dieci divisioni, dalla serie A alla seconda categoria. Avevo 34 anni, offerte dall’estero. Ma volevo tornare a casa».
Dove?
«San Martino in Rio, Reggio Emilia. Famiglia contadina. Di sinistra: il mito era Berlinguer».
Cristiano Ronaldo dovrebbe tornare allo Sporting Lisbona?
«Arriva sempre nella vita l’ora di restituire parte di quello che ti è stato donato: le grida d’amore di ottantamila persone. La morte sportiva è un momento drammatico. Guardi qui in Qatar: oltre a Cristiano, Suarez, Cavani, Modric, Di Maria, anche Messi...».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Papà Sante era artigiano, anzi artista: era più bravo a lavorare il legno di quanto non fossi io con il pallone. Mia madre Vanna, operaia, non c’è più da dieci anni. Anche se la sento sempre con me».
Dove la sente?
«Nella brezza che spira qui al diciannovesimo piano, nel caffè che stiamo bevendo, nel mare all’orizzonte...».
Lei crede in Dio?
«Certo. Non può finire tutto qui».
Chi è stato il più grande di tutti i tempi?
«Messi da diciotto anni ha una continuità non umana. Però ogni generazione ha il suo eroe. Per me il più grande è stato Maradona. Ma Guardiola indica la statua di Cruijff e dice: dobbiamo tutto a lui. Secondo El Flaco Menotti il più grande calciatore della storia è Pelè: “El Negro es otra cosa...”».
E tra gli italiani?
«Io dico Baggio. Poi Pirlo. Mio padre dice Rivera».
Tutti numeri 10. E Facchetti, Cabrini, Baresi, Maldini?
«Maldini è stato il più grande difensore di sempre. Ho giocato con lui, e quando mi faceva segno di salire sentivo l’emozione alla gola, mi pareva di essere inadeguato. Ma gli immortali sono quelli che attaccano».
L’attaccante più forte con cui lei abbia mai giocato?
«Ronaldo Luis Nazario da Lima: faceva cose che non si erano mai viste fare a nessuno. Poi Batistuta. L’ho incontrato qui l’altro giorno, in un parcheggio. Ci siamo abbracciati. Aveva le caviglie a pezzi. Ora sta meglio, ha ripreso a camminare. Il calcio è anche sofferenza».
Balotelli è un bluff o un campione mancato?
«Era fortissimo. Aveva tutto. Ma è difficile resistere sia all’amore che ti piove addosso, sia all’invidia. Tutti vorrebbero fare il calciatore; quasi nessuno ci riesce».
Lei aveva iniziato ad allenare.
«Mancini mi chiese di fargli da vice all’Inter. Ma lavoravo già a Sky, e avevo dato la mia parola».
Perché con Sky è finita?
«Non lo so. Non me l’hanno mai spiegato. Il rapporto prima si è raffreddato, poi si è interrotto».
Come nasce la sua passione per i calciatori sudamericani?
«Ho sempre legato molto con loro. Lunghe serate in ritiro a parlare e a bere mate: Hernan “Valdanito” Crespo, El Pupi Zanetti, El Chino Recoba, Carlos “Colorado” Gamarra...».
Chi?
«Davvero lei non sa chi è Gamarra? (Adani appare sinceramente incredulo e indignato). I paraguagi Carlos Gamarra e Celso Ayala furono la più forte coppia di difensori centrali di Francia 1998! Ma l’amico più caro divenne Matias Almeyda: un hermano, un fratello. Andai a trovarlo a Buenos Aires, e scoprii il River. Di notte non dormivo: guardavo il campionato argentino, quello uruguagio, la Copa Libertadores, la Copa America... Lì ho capito cos’è la garra charrua».
Cosa diavolo è la garra charrua?
«È l’artiglio degli indios. È la rabbia con cui i nativi si difesero dagli invasori. Non si capisce il calcio sudamericano se non si coglie quel senso di ribellione che viene da dentro, che non accetta un No come risposta. È una passione al bordo della follia».
La sua passione è l’Uruguay.
«È una delle due grandi passioni della mia vita».
Non voglio sapere l’altra.
«Invece gliela dico: Mohammed Alì. Sono andato a piangere sulla sua tomba».
Perché proprio l’Uruguay?
«Perché è il miracolo del calcio. Tre milioni di abitanti, due Mondiali, due Olimpiadi, quindici Coppe America, quasi il doppio del Brasile. L’uruguagio dà il meglio quando è debole, sopraffatto, soverchiato. L’uruguagio è l’uomo a terra che si rialza. Tutti abbiamo dentro una scintilla del suo spirito. Quando la notte non riesco a dormire, penso al Capitan, lo vedo al Maracanà...».
Chi è il Capitan?
«Obdulio Varela, detto El Negro Jefe, leader degli eroi del 1950. Segna il Brasile. El Capitan capisce che se l’Uruguay si sbilancia all’attacco, è finita. Allora tiene palla, abbassa il ritmo, congela la partita. Pepe Schiaffino, nipote di un macellaio di Camogli, pareggia in contropiede. Al 79’ parte Ghiggia e infila il 2-1 davanti a duecentomila brasiliani... (Adani ha le lacrime agli occhi). La vittoria più clamorosa nella storia del calcio».
Lei ha detto contropiede. Perché allora ce l’ha tanto con Allegri?
«Non ce l’ho con Allegri. Per due volte ho interagito con lui, per due volte si è tolto l’auricolare e se n’è andato».
Cosa gli rimprovera?
«Non si è evoluto. Lo farà, ne sono certo. Per ora, non mi piace come gioca e non mi piace come parla. Corto muso... Allegri non ha capito che il calcio contemporaneo deve dare emozioni».
Ma il mito del possesso palla è finito.
«Il possesso è un mezzo, non un fine. Conta pressare, avanzare, calciare in porta».
Con Vieri vi siete inventati la Bobo tv.
«È la cosa più rivoluzionaria. Mi sa che qualche suo collega giornalista la patisce un po’».
Cassano però non ne azzecca una.
«Bugia. Antonio è un generoso. Siete voi che volete sempre ridurlo al trash. L’avete preso in giro quando disse che Julian Alvarez era meglio di Haaland; e adesso Alvarez è la sorpresa del Mondiale».
Davvero lei ha fatto ritrovare un ragazzo fuggito di casa?
«Vigilia di Inter-Juve, semifinale della Coppa Italia 2004. Un giornalista mi chiede di lanciare un appello per un padre di Brescia, disperato: il figlio, Francesco, non si trova più. Mi dicono che non si può. Così scrivo un messaggio sulla canottiera sotto la maglia. E penso: se segno, la faccio vedere».
Lei Adani non segnava quasi mai.
«La Juve sta vincendo 2 a 1 a San Siro. Fuga di Stankovic sulla sinistra, cross, Emre che è piccolissimo la prende di testa, il portiere devia, io metto il piede, la palla entra. Corro verso centrocampo e mostro la scritta: “Francesco torna”. Il giorno dopo, Francesco tornò».
Dov’era?
«In un bar di Genova, a guardare la partita. Crisi d’adolescenza; superata. Siamo rimasti in contatto, mi ha scritto l’altro giorno».
Davvero Maradona, come lei ha gridato in tv, predisse l’avvento di Messi?
«Intendeva che il calcio argentino non finiva con lui. Il giorno del suo ritiro, della sua morte sportiva, Diego pronunciò la frase più importante nella storia del football».
Quale?
«La pelota no se mancha. Lui aveva sbagliato, e pagato. Ma il pallone non si macchia. Come il pennacchio di Cyrano».
Ma cos’hanno di così speciale questi sudamericani?
«Il sangue bollente. Le giocate di strada. Messi di solito scannerizza il campo, ha un radar che gli fa vedere cose che altri non vedono; ma l’altra sera quel dribbling sulla fascia è stato una giocata di strada. Sapevo che l’avrebbe fatta. Come le ho detto che sarebbe finita Argentina-Croazia, quando ci siamo visti allo stadio prima della partita?».
Tre a zero.
«Infatti».
Pronostico per la finale?
«La favorita è la Francia: 55 a 45. Ma preghiamo il dio del calcio perché ponga una mano sulla testa di Leo Messi».