Avvenire, 18 dicembre 2022
Kinmen, l’avamposto di Taiwan che aspetta l’invasione dalla Cina
Contro i venti che battono Kinmen ogni giorno dell’anno, gli abitanti dell’isoletta taiwanese a un tiro di sasso dalla Cina hanno eretto decine di totem di divinità-leone. Nulla hanno però potuto fare per fermare il mezzo milione di bombe piovuti sulle sue sponde nel 1958, quando Pechino ha cercato di riconquistare con la forza Taiwan. Gli intraprendenti isolani usano ancora il metallo degli esplosivi per fabbricare coltelli, ma non dimenticano l’orrore di quei mesi. «Farei qualsiasi cosa per evitare una nuova guerra – dice Hsu Tsaihua, signora 72enne, nel suo negozio di crêpes di sorgo –. Non vedo perché dovremmo lottare. Siamo tutti cinesi, una sola famiglia, prima o poi saremo di nuovo uniti». Nella capitale Taipei, un’ora di volo più a Est, da dove la costa cinese non è visibile, è più raro trovare sentimenti di simpatia per la Cina comunista: l’identità taiwanese è più forte. Ma il timore di un conflitto con Pechino è altrettanto presente. «Ho più paura della guerra che di perdere la libertà», confessa Wang Jhih-Yang, studente universitario. Nel dibattito quotidiano sui difficili rapporti con la «terraferma», la stragrande maggioranza dei taiwanesi concorda che occorre adoperarsi per mantenere lo status quo attuale. Ma sulla definizione di questa espressione pass partout e su che prezzo si debba pagare per salvaguardarla le opinioni variano.
Per il partito nazionalista Kuomintang, che ha occupato Taiwan in fuga dai comunisti di Mao e l’ha governata con il pugno di ferro prima di aprire alla democrazia negli anni ’90, il dialogo con Pechino è il solo modo di garantire la sicurezza dell’isola. «Il nemico non è Cina, ma il partito comunista – argomenta Alexander Huang, consigliere speciale per gli affari internazionali del partito –. Mantenere lo status quo vuol dire prevenire la tensione. Non vogliamo essere costretti a scegliere fra Washington e Pechino. Siamo tutti cinesi, la questione dell’identità taiwanese è stata strumentalizzata per motivi politici».
Per il partito al potere, il Dpp, che negli ultimi dieci anni ha rinunciato alla sua originale aspirazione di dichiarare l’indipendenza formale dell’isola, il termine status quo può trarre in inganno. «Non è una situazione statica, perché la Cina continua a modificare le relazioni unilateralmente, per capire fino a dove può spingersi senza scatenare una reazione internazionale – dice Fei-fan Lin, vice segretario generale del partito progressista democratico —. Dobbiamo spingere anche noi, con la deterrenza armata, o il prezzo che dovremo pagare per la libertà sarà sempre più alto». Di certo l’equilibrio fra Taiwan e Cina è cambiato dallo scorso agosto, quando la visita della Speaker statunitense Nancy Pelosi a Taipei ha suscitato l’ira di Pechino per un gesto considerato pericolosamente vicino al riconoscimento Usa dell’identità nazionale di Taiwan. Il malcontento ha preso la forma di massicce esercitazioni militari e di lancio di esplosivi nelle acque di Taiwan che hanno fatto correre brividi in tutte le cancellerie mondiali, consapevoli che XI Jinping non ha mai rinunciato ad annettere con la forza l’isola democratica e ansiose alla prospettiva di un’Ucraina asiatica.
Washington ha seguito con particolare apprensione la dimostrazione di forza del suo principale – e unico – rivale economico e militare, sapendo che non sarebbe potuta restare a guardare in caso di attacco cinese contro Taipei. La politica Usa nei confronti di Taiwan verte infatti su una delicata «ambiguità strategica» che ammette la piena autonomia ammini-strativa di Taiwan, ma riconosce a Pechino il principio che l’isola non rappresenta un Paese a sé stante.
Il Congresso Usa è insolitamente unito nel voler difendere in Taiwan un esempio di democrazia che ha il potenziale di scalzare gradualmente il primato del comunismo in Cina. Ma è soprattutto il valore geopo-litico, tecnologico e strategico dell’isola a renderla preziosa. Il 40% del traffico marittimo mondiale e l’80% delle navi portacontainer attraversano lo stretto di Taiwan. E oltre il 90% dei semiconduttori di nuova generazione utilizzati nei computer, nelle automobili e nei cellulari americani provengono da Taiwan: uno studio recente calcola che l’interruzione del flusso di microchip farebbe crollare il Pil americano del 10% in pochi mesi.
Si capisce perché, quando si tratta di Taipei, Washington non badi a spese. La scorsa settimana il Dipartimento di Stato ha approvato la vendita di 428 milioni di dollari per la forza aerea dell’isola, messa a dura prova dalle ripetute intercettazioni di jet cinesi. A settembre, l’Amministrazione Biden aveva ottenuto dal Congresso il via libera per la vendita di 1,1 miliardi di dollari in missili e radar, sollevando le rimostranze di Pechino.
Fra il 50 e 60% dei taiwanesi, a seconda dei sondaggi, dà per scontato che gli Usa correrebbero in loro soccorso in caso di un’offensiva cinese. Una dipendenza che preoccupa Washington. «Il dibattito sull’autodifesa non è abbastanza sviluppato a Taiwan – sostiene un diplomatico Usa in forma anonima –. Quasi due terzi dei taiwanesi si dicono pronti a imbracciare un fucile per difendere la loro patria, ma il dubbio resta: in caso di attacco, che cosa sarebbe disposta e capace di fare Taiwan? Taipei non è Kiev, non ci sono ferrovie per approvvigionarla di armi, materie prime e cibo». Ancora prima di sparare un singolo colpo, però, la Cina ha molti strumenti nel suo arsenale per attirare o costringere nella sua orbita l’isola ribelle. C’è il ricatto del possibile sabotaggio alle infrastrutture, al quale Taiwan è vulnerabile. Ci sono gli attacchi informatici, la chiusura della fornitura d’acqua alle isole minori (come Kinmen), per arrivare al blocco navale, che metterebbe in ginocchio Taiwan, che importa il 98% delle sue fonti di energia. «Abbiamo aumentato le nostre scorte per coprire sei mesi di fabbisogno di petrolio e quattro di carbone», dice Tsu-Yun Su, del think tank governativo per la Difesa Indsr. Ma soprattutto, e già in corso, c’è la mitraglia della disinformazione, sparata al ritmo di 200 milioni di post sui media sociali all’anno, con i quali Pechino vuole far passare l’idea che il governo taiwanese è troppo debole per occuparsi dei suoi cittadini o diffonde sondaggi fittizi sul presunto ampio sostegno popolare taiwanese per la riunificazione con la Cina. Più lenta ma potenzialmente corrosiva è infine la via dell’infiltrazione ideologica che passa attraverso alcuni media taiwanesi controllati da una manciata di aziende che fanno affari miliardari con la Cina, come spiegano alla Taiwan Foundation for Democracy.
Non ci sono per ora segnali importanti che le campagne cinesi stiano cambiando in modo radicale l’orientamento della popolazione taiwanese. Ma la postura sempre più aggressiva della Repubblica popolare sta avendo successo nel generare panico fra la popolazione, e questo si potrebbe tradurre in un mandato elettorale al prossimo governo di mantenere la pace a tutti i costi, anche scendendo a compromessi con Pechino. Le ultime elezioni hanno inferto un forte colpo al partito al potere, intransigente nei confronti della Cina, ma si sono giocate soprattutto su temi locali.
Negli affollati mercati di Taipei come nei centri di ricerca politica ai piani alti dei suoi grattacieli, si sente spesso ripetere che Xi è minaccioso, ma ha troppo da affrontare sul fronte interno per voler lanciare un’offensiva. Un senso di sicurezza che molti ex militari e uomini d’affari giudicano illusorio, tanto che alcuni nell’ultimo anno hanno creato una mezza dozzina di gruppi di addestramento all’auto difesa.
Giovedì scorso 25 persone di tutte le età avevano pagato 1000 dollari taiwanesi (circa 30 euro) per imparare a fabbricare lacci emostatici e barelle improvvisate nella sede della Forward Alliance. Nel fine settimana oltre cento avrebbero imparato a sopravvivere nella giungla con le guide della Kuma Academy. I vertici della Difesa taiwanese li osservano da vicino, a disagio. «La consapevolezza della minaccia cinese è positiva – ammette uno di loro, anonimamente – il panico, no. Non vogliamo trovarci fra le mani decine di milizie civili armate».