La Lettura, 17 dicembre 2022
Pastori
L’orgoglio e la nobiltà dei pastori moriranno solo quando sparirà l’ultimo di loro. Fino a quel giorno, i pastori resisteranno. Come hanno fatto per millenni. E continueranno a trasmettere ai più giovani, autoctoni o stranieri che siano – di italiani ve ne sono sempre meno e sempre meno giovani – ciò che per loro è il comandamento fondamentale: essere pastore significa vivere con il proprio gregge e amarlo. Che poi, senza accostamenti retorici, è ciò che dice Gesù Cristo, altrimenti definito il Buon Pastore.
Il più lungo dei tratturi italiani, il percorso per eccellenza della transumanza, cioè il regio tratturo che va dall’Aquila fino al Tavoliere e poi penetra la dorsale appulo-lucana secondo lo stesso percorso della Via Appia, ramificandosi fin sulla rocca del Garagnone nell’altopiano delle Murge, è ancora oggi la principale trincea in cui i buoni pastori difendono sé stessi e le loro greggi. Non solo dalla fame dei lupi e degli orsi ma, come vedremo più avanti, soprattutto dalla cupidigia e dai pregiudizi degli uomini.
Non sono pastori di un’idilliaca Arcadia, non c’è alcuna febbre «romantica» in loro, e non sono nemmeno degli ostinati Don Chisciotte che vivono inseguendo miti. Questi pastori sono persone sagge, pazienti, dirette, sempre pronte alla fatica. Sono padre e madre del gregge, e per i loro animali si trasformano persino in ostetrici e infermieri. Ma sono consapevoli. Per questo quando si arrabbiano hanno quasi sempre ragione. Anche perché la loro giornata, e dunque la loro vita, è una lotta quotidiana, un’avventura sempre diversa, anche nella ripetizione meccanica di atti indispensabili alla vita e alla prosperità del gregge.
La cura per le capre e le pecore di Emanuel Lulaj e Erich Alluli, albanesi, o del ghanese Isu Zakaria, o dell’abruzzese Tiziano Iulianella, e persino del pugliese Antonio Marano di Rocchetta Sant’Antonio – «pastore a metà», poiché fa anche l’operaio alla Fiat di Melfi – è la stessa. Non cambia niente. Tutti, per esempio, la prima cosa che fanno, all’alba, è di affacciarsi nell’ovile per sincerarsi delle condizioni del bestiame e per dar da mangiare ai cani. Altrimenti la giornata non comincia. I cani sono i veri aiutanti dei pastori, i «pastori in seconda», quelli che per tutta la giornata, al pascolo e fino al ritorno, non perderanno mai di vista il pastore e il gregge e saranno sempre pronti per qualsiasi necessità. I cani, si tratti dei maremmani abruzzesi di Iulianella e di Marano, oppure dei bastardi senza gloria di Lulaj, Zakaria e Alluli, si farebbero ammazzare pur di salvare la vita a una pecora o a un agnello. O per difendere il pastore. «Io ne ho 15 – dice Lulaj – e a tre di loro ho insegnato tutto, perché li ho allevati fin da cuccioli. Al pascolo il pastore e i cani mangiano insieme ma se questi fiutano l’odore dei lupi mollano tutto e vanno in avanscoperta. Riprendono a mangiare solo dopo che i lupi si sono allontanati, perché hanno capito che non è aria».
Emanuel Lulaj ha 27 anni, viene da Fier, un centinaio di chilometri a sud di Tirana, e in Albania si è diplomato da elettromeccanico, un mestiere che doveva rappresentare un avanzamento sociale rispetto alle sue origini contadine. Il misero salario invece lo ha spinto a emigrare in Italia. Dove, suo malgrado, almeno all’inizio, si è reinventato pastore. Lo ha persuaso lo stipendio di 800 euro al mese, inclusi vitto e alloggio più qualche extra, che gli ha offerto il suo coetaneo Vito Bevilacqua, proprietario di un gregge di 600 pecore e capre che si arrampicano sulla rocca del Garagnone. I due sono diventati anche amici, non c’è un rapporto di sfruttamento tra loro, perché Vito paga Emanuel ed Erich il massimo che può. Di più non potrebbe, altrimenti deve chiudere la baracca. Emanuel, in meno di un anno, grazie anche all’aiuto del connazionale Erich Alluli – che viene da Kavajë, ha 29 anni, ma sta qui da sei – è diventato un vero pastore: conduce le pecore al pascolo, le fa partorire, le munge, si occupa e si preoccupa di loro. Cioè, vive con loro, e le ama. Adesso sarebbe difficile per lui separarsi dal suo gregge. Lo stesso è accaduto a Isu Zakaria, 33 anni, giunto nelle campagne di Venosa da tutt’altra parte di mondo, il Ghana, e diventato ormai un pastore esperto e conteso dagli allevatori della zona, oltre che un curioso del poeta di Venosa, Quinto Orazio Flacco, e della sua poetica dell’otium, il cui senso nella società anonima dell’algoritmo forse solo i pastori sono in grado di cogliere e mettere in pratica.
Non è però una novità che i pastori, anche quelli analfabeti, siano persone colte. Autodidatti, o con una istruzione fermatasi alle prime classi della scuola elementare, i pastori hanno sempre letto, specialmente durante i lunghi tragitti della transumanza, che duravano anche tre o quattro settimane e che adesso non si fa più a piedi, ma con i camion che trasportano gli animali da un posto all’altro. Giovanna Visci, insegnante di Italiano e Latino al liceo «Benedetto Croce» di Avezzano (L’Aquila), ci ha fatto vedere la Fontana della Giggia, a Pescasseroli, un abbeveratoio storico che era una fermata obbligatoria per le greggi che dall’Abruzzo attraversavano il Molise e infine raggiungevano la Puglia. «Era proprio qui che mio nonno Domenico si fermava a leggere», dice Giovanna, e ci mostra che cosa leggeva il pastore Domenico Visci: la Gerusalemme liberata, la Divina Commedia, l’Orlando innamorato, libri tascabili con copertina rigida editi da Sonzogno, che stavano comodamente nella bisaccia di un pastore e che Domenico ha sempre custodito gelosamente fino a lasciarli in eredità a sua nipote.
Oggi a far compagnia ai pastori c’è il telefonino, e, per una volta, dobbiamo dirne bene. Perché non solo si rivela necessario nelle situazioni di disagio o di pericolo, quando i pastori sono lontani decine di chilometri dall’ovile o dalla masseria, ma permette loro di informarsi, di leggere, di ascoltare musica. «Anche per il telefonino – dice a “la Lettura” Tiziano Iulianella – dipende dall’uso che se ne fa. Senza, per noi sarebbe tutto ancora più difficile». Iulianella, 59 anni, è di Pescina, il paese dell’immenso Ignazio Silone, e la prima cosa che tiene a sottolineare è che lui i libri di Silone non solo li ha letti, ma li considera la sua stella polare, «perché – sostiene Tiziano – i “personaggi prepotenti” individuati da Silone, cioè i pastori e la montagna, sono ancora oggi l’anima dell’essere pastore e dell’essere montagna». Iulianella ha 700 pecore e oltre al telefonino, quando conduce il gregge al pascolo, non manca mai di portare con sé la «pirocca», il classico bastone uncinato, e di far indossare ai cani il «vruccale», un largo collare di ferro sul quale sono saldati robusti aculei che impediscono ai lupi di azzannare il cane alla gola. Iulianella ha scelto di fare il pastore e l’allevatore come suo nonno Pacifico e suo padre Antonio, ma sa che forse la sua sarà l’ultima generazione di pastori autoctoni. Se ad aiutarlo non ci fossero Marius, 37 anni, romeno, e i fratelli bulgari Svetan e Antoinette, non saprebbe come fare a mandare avanti l’azienda, nonostante sappia anche lavorare il latte e trasformarlo in eccellente formaggio pecorino. Colpa anche del cervellotico e criminogeno sistema di aiuti comunitari Pac (Politica agricola comune), che dal 2003 (presidente della Commissione europea, Romano Prodi) basa l’erogazione degli aiuti economici su «titoli», cioè su certificazioni spesso fittizie che nulla hanno a che vedere con l’attività reale dell’allevamento e consentono truffe miliardarie. Di cui beneficiano società composte da tutti fuorché da pastori (figurano avvocati, notai, commercialisti e persino farmacisti) e la cui sede legale è prevalentemente nel Nord Italia (Verona, Pavia, Cuneo, Trento).
Sul mercimonio dei pascoli del demanio pubblico attraverso il giochetto dei «titoli», che sta mortificando l’Abruzzo e i suoi allevamenti estensivi, l’Università dell’Aquila ha svolto una accurata indagine – guidata da Lina Calandra, docente di Geografia – poi consegnata anche alla Commissione antimafia.
Tuttavia, e nonostante dal 2014 al 2020 all’Italia siano arrivati aiuti diretti Pac per 4 miliardi di euro, nessuna delle otto Procure abruzzesi (8, su un milione e 300 mila abitanti) ha mai aperto un’inchiesta. Se poi a questo si aggiungono i bassi prezzi di acquisto dal produttore del latte (un euro al litro) e della lana (da una pecora in media se ne ricavano 3 chili, valore 2 euro, mentre far tosare una pecora ne costa 3), e l’immutato pregiudizio sociale nei confronti dei «pecorai», dei quali si conosce poco o nulla, ecco che si può comprendere meglio perché quella di Lulaj, Bevilacqua, Zakaria, Alluli, Marano e Iulianella sia una resistenza. Sono pastori in trincea. Però, attenzione. Come sappiamo, anche il Buon Pastore qualche volta si è seriamente arrabbiato.