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 2022  dicembre 17 Sabato calendario

IL MIO SINISA – IVAN ZAZZARONI RACCONTA L’AMICO MIHAJLOVIC, “IL PIU’ DOLCE TRA I DURI” – "HO COMMESSO L’ERRORE IMPERDONABILE, CHE HO PAGATO, DI AVERLO CONSIDERATO 'MIO'. PENSAI DI AVERE L'ESCLUSIVA DEL RAPPORTO GIORNALISTA-TECNICO. MA SINISA È SEMPRE STATO ED È DI TUTTI" (ZAZZARONI DIEDE LA NOTIZIA DELLA LEUCEMIA DEL TECNICO E SI ATTIRO' L'IRA DI SINISA) - LA PASSEGGIATA PRIMA DELL’ULTIMO RICOVERO, LA SFIDA CON MANCINI A CHI ERA L’ALLENATORE PIU’ TRENDY, LA MANIA DEI PROFUMI, LE SCARPE SEMPRE DI 2 NUMERI PIU’ GRANDI, E QUEL BERRETTO DA PITTORE: “ARIANNA AVEVA RAGIONE, ERA ORRIBILE” -

1- IL MIO SINISA – IVAN ZAZZARONI RACCONTA L’AMICO MIHAJLOVIC, “IL PIU’ DOLCE TRA I DURI” – HO COMMESSO L’ERRORE IMPERDONABILE, Ivan Zazzaroni* per “la Stampa” *Direttore del Corriere dello Sport-Stadio e del Guerin Sportivo Massimo Giannini mi ha chiesto di raccontare il "mio Sinisa" ai lettori de "La Stampa". Ovvero - ma non poteva saperlo - di descrivere (anche) un errore imperdonabile, che ho pagato, quello di averlo considerato a lungo "mio". In particolare da quando, nell'ottobre 2008, consigliai all'allora direttore generale del Bologna, Pier Giovanni Ricci, di dare all'ex vice di Mancini, pur se alla prima esperienza, il posto di Daniele Arrigoni che stava per essere esonerato.

Suggerii proprio a Mancio di incontrare il dirigente per sostenere la candidatura di "Sini" - lo chiamavo così - e lui si prestò. Due giorni dopo la chiacchierata tra Ricci e Roberto, Sinisa mi chiese di accompagnarlo negli uffici milanesi dei Menarini dove incontrò la figlia del proprietario, Francesca. Una rapida stretta di mano prima di lasciarli soli. La convinse in meno di un'ora con la sua esuberanza, la voglia di fare, tanta personalità.

L'esperienza a Bologna non si rivelò esaltante: sei mesi dopo, ad aprile, i Menarini lo licenziarono e presero Papadopulo, imposto - si disse - da Luciano Moggi. Catania, Fiorentina, Serbia, Samp, Milan, Torino, la Juve sfiorata due volte: nel giro di pochi anni, tra molti alti e qualche basso, l'allenatore Mihajlovic crebbe professionalmente, insieme alla nostra amicizia. A un certo punto pensai di avere ottenuto l'esclusiva del rapporto giornalista-tecnico: mi raccontava tutto, spesso si sfogava, condividevamo anche momenti di vita, non solo di calcio. 

Sinisa non era mio: è sempre stato ed è di tutti, in primo luogo della famiglia, Arianna, i cinque figli, la nipote, Violante, che gli somiglia nelle espressioni del viso, nelle finte cupezze, e della madre settantanovenne che non avrebbe dovuto veder morire un figlio, del fratello che gli ha donato il midollo per il secondo trapianto, degli amici, dei tifosi, della gente. E di Andrea, il collega della Gazzetta che ha avuto il merito di conquistarne la fiducia più piena.

Forte e naturale è stato l'abbraccio tra noi mercoledì sera nella camera 326, come naturale è stata la gelosia che qualche volta ho provato: Sinisa ha voluto unirci. Lui si mangiava la vita, tentava di dominarla, era divisivo, ma generosissimo, non temeva l'impopolarità derivabile dalle scelte più scomode. Voleva e doveva essere il più leale, il più elegante, il più trendy, il sempre giovane, il più profumato: la passione per le essenze esclusive l'ha coltivata fino alla fine. Aveva un amico, Paolo, che gli consigliava l'outfit, mentre ai figli chiedeva spesso di indicargli le nuove tendenze della moda.

I jeans dovevano essere skinny o baggy, a seconda del momento. Sinisa aveva poi le debolezze degli uomini solidi, la più singolare riguardava le scarpe. Aveva i piedi piccoli, 41 e mezzo, 42, ma acquistava solo calzature di due numeri superiori. Non riesco a scrivere del grande calciatore o del tecnico sempre aggiornato, curioso, muscolare e empatico. Oggi c'è solo l'amico, quello che dimenticava le incomprensioni spiegando che «non abbiamo più tempo per farci dei nuovi amici, meglio tenersi quelli vecchi».

In ospedale Arianna e Viktorija («sei magra come un'asciuga» le ripeteva), la maggiore dei cinque figli, mi hanno raccontato la camminata di libertà, il giorno stesso in cui è stato ricoverato: indebolito dalla malattia, sfibrato, stanco ma solo per gli altri, era uscito sotto la pioggia contro il parere della moglie e contro ogni logica. Sono stati gli ultimi chilometri della sua vita. Riconosciuto per un istante Mancio prima del sonno indotto, Sini l'ha salutato così: «Robi, fai il bravo».

Giuro che vorrei sapere cosa pensa del mio addio. So che troverebbe qualcosa da ridire anche stavolta. Forse pretenderebbe silenzio. Se è per questo, abbiamo sbagliato mestiere entrambi. A modo nostro, viviamo di sentimenti espressi, non secretati. E se non mi facessi, ora, un segno di croce, mostrerei di patire il rispetto umano, nascondendo per debolezza un dolore sincero.

2.IL PIU’ DOLCE DEI DURI Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport

Una settimana fa, smagrito e indebolito dalle cure ma con il cuore e il cervello che pompavano soltanto voglia di vivere, era uscito la mattina presto per andare a camminare. Faceva freddo, molto freddo, pioveva. Arianna l’aveva pregato di restare a casa, di rimandare. Niente da fare: quando Sinisa si metteva in testa una cosa, quella doveva essere.

E il più delle volte era. Rientrato dopo un paio d’ore s’era mostrato orgoglioso degli otto chilometri percorsi. Otto chilometri, e con pochissime piastrine nel sangue. Più tardi, mi ha raccontato Arianna, guardando la televisione che trasmetteva uno spot natalizio, la famiglia riunita a tavola, “Sini” aveva detto di sentirsi felice e che era quella la sua idea di felicità: lui, Arianna, i figli, i loro compagni e Violante, la nipote che tanto gli somiglia nelle espressioni, soprattutto nelle finte cupezze.

Sinisa era andato a camminare contro la leucemia e la logica: lui voleva essere più forte di tutto e tutti. Il più forte e il più bravo, l’allenatore più elegante - anche più del Mancio, suo fratello -, il più trendy e il più profumato: aveva il culto delle essenze particolari, introvabili, personalizzate, al punto che ti accorgevi del suo passaggio a un chilometro di distanza.

A Paolo, l’amico eletto a fashion stylist, chiedeva in continuazione consigli sull’outfit. Che doveva essere speciale. Ai figli, invece, le nuove tendenze della moda. Nonostante la malattia gli stesse divorando l’esistenza ma non l’umore, fino a poche ore prima di entrare per l’ultima volta in ospedale Sinisa aveva programmato trasferte, impegni, telefonato agli amici, Leo, Stefano, Roberto, minacciando ritorsioni. Sinisa aveva fame di vita e soffriva di impazienza. Era duro, il più dolce tra i duri.

Dolce e profondamente religioso, in tanti anni di calcio nessuno l’ha mai sentito bestemmiare, e dire che di momenti difficili e tensioni ne ha dovuti affrontare . Quando gli capitava di incrociare espressioni blasfeme nello spogliatoio o in campo, si incazzava «come una bestia». La fede ha svolto un ruolo importante negli ultimi, delicatissimi anni. La malattia l’aveva cambiato solo in parte, la sua seconda vita l’aveva spinto a riordinare le priorità. Il calcio, la squadra, l’allenamento, la vigilia, la partita e il dopo partita erano però rimasti al primo posto.

Giovedì mattina, quando l’ho visto per l’ultima volta sul letto della 326 e ho ascoltato il suo respiro, ho scritto una sorta di lettera all’amico: “Ti voglio bene, Sini. Te ne ho voluto per trent’anni. Anche nei momenti più difficili, uno in particolare, quello che non riesco a dimenticare e che non posso dimenticare, la stima e l’amicizia hanno sempre prevalso sui contrasti, sulle incomprensioni, sulle cattiverie di chi non poteva o voleva sapere la verità.

E quando un paio di anni fa, al Parco dei Principi, mi spiegasti che «non abbiamo più tempo per farci dei nuovi amici, meglio tenerci quelli vecchi», capii che non poteva essere che così. Ci siamo presi in giro. Ci siamo confrontati, assolti, abbiamo parlato di calcio, di vita, di rapporti, di figli e nipoti. Anche di chi ci stava sulle palle. Il vero Mihajlovic io l’ho conosciuto. 

Chi ha potuto accedere alle tue confidenze e anche al tuo dolore ha ben chiaro che dietro certe sparate - quello l’attacco al muro, quell’altro non ha il coraggio di farsi vivo perché sa bene che se lo incontro le prende -; dietro certe asperità e divertenti esibizionismi, dicevo, c’era un uomo sensibile, di sentimenti, un padre che con i figli alzava la voce e minacciava punizioni pochi istanti prima di arrendersi all’amore. In casa eri il poliziotto buono, di Arianna il ruolo scomodo. Hai recitato una parte, quella del guerriero, che resterà nel cuore della gente. Anche se ho sempre preferito l’autenticità che nascondevi.

Aveva colpito tutti quel tuo modo di affrontare la malattia, la prima volta. Il faccia a faccia con un avversario più feroce e subdolo. Tu contro la leucemia: partiamo alla pari, avevi detto. Poi, però... quando lo scorso marzo si è ripresentata, tu che eri convinto di averla probabilmente sfangata, hai capito che sarebbe stata molto più dura: eri già passato attraverso un terribile calvario e non potevi sopportare l’idea di dover ricominciare. Hai indossato tutti i volti della malattia: il coraggio non ti è mai mancato. Il coraggio e l’imprudenza. 

Come quella volta a Verona: eri appena un’ombra che a fatica si reggeva in piedi. O quando lasciasti l’ospedale dopo un intervento chirurgico, naturalmente contro il parere dei medici. Oppure nei tanti blitz a Casteldebole per assistere agli allenamenti: volevi far capire che c’eri sempre e che saresti tornato. Te ne sei andato a pochi giorni dal Natale. Non si lascia un vuoto incolmabile proprio nel momento in cui abbiamo tutti più bisogno di calore, amore, famiglia, vecchi amici, buone notizie, serenità, pace. Non eravamo preparati. Sognavamo di rivederti con sorriso e muscoli e risentire la tua inconfondibile voce, quell’italiano che non digeriva gli articoli”.

«La cosa bella che ho visto oggi» mi ha scritto il dottor Nanni che dal primo momento gli è stato molto vicino e giovedì mattina ho atteso in ospedale «è la serenità della famiglia e in particolare di Arianna e della figlia Viktorija. Pur nella disperazione c’è la consapevolezza di averlo accompagnato fino a qui con tutto l’amore e l’affetto che una famiglia sa dare».

Una settimana fa mi è capitato di andare a sbattere contro i versi di un poeta serbo, Dorde Sibinovic. Non amo particolarmente la poesia, eppure la sua “Terapija” mi ha scosso: Sei chilometri di cammino veloce/attende il malato di cuore ogni giorno./ Il mio caso è specifico./All’inizio sono pronto al peggio/ poi mi soffermo aspettando un colpo improvviso…/ finché l’accelerazione non porta la gioia/ della nuova nascita senza malattia./ A casa giungo sudato/ e deluso/ per quanto tutto dura poco...

Ciao, Sini, ho appena cancellato tutti i tuoi messaggi, non il tuo numero. I ricordi saranno la presenza della tua anima. Adesso però posso dirtelo: Arianna aveva ragione, quel berretto da pittore era orribile.