Robinson, 17 dicembre 2022
Biografia di Franco Arminio raccontata da lui stesso
Dopo un po’ che parliamo del suo mondo di idee e di sogni, ho la sensazione di cadere mani e piedi nell’irrequietezza di Franco Arminio, poeta, scrittore, intrattenitore di anime semplici. I suoi libri sono spesso successi, le sue frasi consegnate al regno di Web toccano i cuori dei i suoi sudditi. Ma Arminio è come un monarca senza corona. Un apolide del pensiero imbronciato e bambino. A un certo punto della nostra conversazione si alza dalla poltrona e comincia a passeggiare nella stanza. Dice di avvertire l’irrefrenabile pulsione di muoversi. Ha caldo, ma un momento prima era intirizzito. L’uomo, vigoroso come gli alberi che ama e racconta e desolato come un paese abbandonato, vive di rapide oscillazioni. La sua produzione letteraria va dalle potenti raccolte diCartoline dai morti ad Atleti,appena uscito da HarperCollins. Dice che la critica si è allontanata da lui ma il pubblico gli è sempre più vicino. Chi è davvero Franco Arminio? In Atletisi descrive così: Volevo fare il giornalista sportivo,/viaggiare, raccontare grandi imprese/ e ripartire./Questi sono i miseri resti,/le prove/di come una vocazione/può fallire.C’è spesso aria di disfatta nelle cose che scrivi.«Scrivo sotto la dettatura dell’ossessione e nell’ossessione c’è tutta la paura di non farcela, di non essere all’altezza, e dunque continuo, continuo, continuo».Verso dove?«Potrei dirti in direzione ostinata e contraria. In realtà,scrivo per i morti e per i vivi e alla fine non so più distinguere, separare, riconoscere. Scrivo per la memoria e per il futuro. Scrivo per conservare nei miei libri quello che nella vita ho perso. Scrivo perché è un’impresa folle e smisurata. E non scrivo per la piccola tribù dei letterati. Scrivo per provare a salvare paesi, alberi, fontane. Scrivo per provare a salvare la poesia che c’è nei luoghi e nelle nostre anime sventurate». Dici di non scrivere per i letterati di professione. Ma in fondo sono coloro che ti hanno scoperto.«Mi hanno incoraggiato, a volte amato e perfino condiviso la mia diversità. Poi quando uscì Cedi la strada agli alberi cominciarono a storcere il naso. Insinuavano che Arminio è troppo pop. Senza capire che il mondo della comunicazione stava cambiando».Hai saputo adattarti.«Adattarmi? No, per carità. È una parola che sa di compromesso. Mi sono dato un compito. Ho pensato che in un mondo che sta male, la letteratura e la poesia servono più che mai. Dopotutto, qualcuno deve pur farlo il lavoro sporco, provando ad avvicinarsi ai cuori semplici». Sei davvero così convinto che la poesia serva a consolare?«Perché non dovrebbe? È il conforto che si cerca nei tempi bui. Un verso di Leopardi o di Rimbaud nel momento in cui illumina ti sta consolando. Vuoi farlo tuo, renderlo partecipe della tua esistenza. È quello che faccio? Diciamo che ci provo. Passo più della metà dell’anno impegnato in serate teatrali. Non faccio cabaret, non racconto barzellette. Parlo del disagio,parlo dei morti e dei vivi. Leggo le mie Cartoline. La gente accorre. Sai perché?».Lo immagino, ma dillo tu.«No, non credo che tu lo sappia. La gente viene a sentirmi perché non rompo i coglioni. Non sono lì a spiegare cosa devono o non devono fare. E non me ne frega niente se ai miei reading i critici sono assenti. Forse pensano che il successo non si sposi con la qualità.«Forse vogliono solo frasi che si travestano da capolavoro. E poi la parola successo non me la sento addosso. Preferisco la parola riconoscimento». Guarda che alla fine cambia poco. Da una parte ci sta la critica e dall’altra il pubblico. Tu hai scelto di stare con quest’ultimo.«Il problema non può essere Arminio. Non sto combattendo la mia guerricciola privata. Semmai, è la letteratura che deve trovare nuovi slanci. Lo scrittore non ha più l’obbligo di mettere la sabbia negli ingranaggi. Il motore è già inceppato da tempo. Oggi è preferibile il lavoro di sartoria. Non deve sabotare quello che la società ha già distrutto, deve dare una forma ai propri pensieri. Rivestirli di sogno e disperazione».Sei sempre stato così inquieto?«Fin da bambino ero irrequieto. Quando giocavo a pallone, quando andavo a scuola, quando ero solo, quando guardavo mio padre e mia madre seduti all’osteria, quando leggevo e quando a 15 anni ho cominciato a scribacchiare».Volevi essere scrittore?«Volevo essere me stesso. Avrei voluto fare il giornalista sportivo, ma quella vocazione iniziale è abortita. Eppure mi sembrava di essere portato per quei racconti tra epica e mimica. Riuscivo a leggere le energie che si sprigionavano in campo, le facce contorte dalla fatica, il sudore, la bellezza del gesto atletico. Ma alla fine la poesia è stata la fuga dalla logica aziendale, la mia cura».Curarti per cosa?«Gli stress mentali. Volevo stare meglio, e mi sembra di non essere mai guarito. Vissi la mia prolungata convalescenza cercando nella scrittura la forza che non ho mai avuto. Per lungo tempo da giovane non ho avuto fidanzate. La timidezza mi impediva perfino di salire su un autobus. Eppure mi interrogavo sul mondo. La mia scuola è stata l’osteria di mio padre: è lì che leggevo, pensavo e osservavo».È stato il luogo del tuo apprendimento?«Insolito, è vero. Ma lì dentro è passata la storia della mia famiglia e quella dell’Italia. Gli anni Sessanta e Settanta e poi Ottanta visti da Bisaccia, da un luogo sorprendente come l’osteria, popolato da manipoli di ubriaconi che commentavano lo sbarco sulla luna o l’assassinio di Moro».Com’era tuo padre?«Luigi, si chiamava Luigi. Un uomo dedito al lavoro. Mi ha insegnato il malumore, così come mia madre mi è stata maestra di ansia. Mio padre avrebbe voluto che i suoi concittadini di Bisaccia gli dicessero bravo e invece non se lo filavano punto. E allora cresceva indispettito il malumore e io, ormai grande, dicevo: ma che vuole, perché sta sempre così incazzato? Ed è la stessa cosa che accade a me: perché sono sempre così incazzato?».Ti sei dato una risposta?«La risposta è in tutto quello che mi è stato trasmesso. Mio padre mi chiamava il pazzo, perché ero irrequieto. Al cinema riuscivo a vedere solo un tempo, all’intervallo dovevo uscire, filarmela. Fino a trent’anni non potevo entrare in una pizzeria, non cela facevo a finire di mangiare sovrastato dall’impulso di dover scappare. Poi ho pensato che ogni volta era come se scappassi da mio padre. Dal suo giudizio».Cosa temevi?«Di essere indegno al suo cospetto. Ancora oggi quando qualcuno critica le mie poesie, penso che dietro ci sia lui, mio padre, a dirmi sei indegno di scrivere. Ho capito che scrivo soprattutto per insicurezza edipica». Non ti sembra di essere abitato dall’eccesso, dalla sproporzione?«La mia è la cultura dell’ipocondriaco, che è poi il latte che mi ha dato mia madre. Mi teneva tra le braccia pensando che sarei morto presto. Come sarebbe morta lei. È questa radioattività dell’anima che ha contaminato il mio corpo. E il corpo dell’ipocondriaco non è mai del tutto alloggiato». Nel senso che è un corpo senza una vera casa?«È un corpo scappato, un corpo che non troverà mai pace, che non mi fa dormire la notte, che non mi fa stare fermo il giorno. Mi sembra di non avere più una vita quotidiana».Hai una famiglia?«Ho una moglie e due figli. Ma sono io il bambino. E se penso al matrimonio mi dico è come provare aimbottigliare una nuvola. Convivo con mia moglie sapendo che la bellezza è anche altrove. E la cerco perché ogni cosa del mondo può rivelare grazia e potenza. E non ho più amici, quasi tutti scomparsi, ho solo lettori. Una vita mostruosa se ci pensi. Tutta legata alla scrittura». C’è il paese in cui vivi e in cui torni, immancabilmente.«Ci deve essere un motivo per cui torno in questa grottesca Itaca. Vivo nella casa dove sono nato e da cui non sono mai andato via. Ma il paese non mi dà più niente. E devo essere onesto: ci sono molti luoghi, come il mio, sfiatati e stanchi. E se ci resto è perché qui mio padre e mia madre dormono sfasciati con le ossa nel buio. Sono un residente a oltranza e la fedeltà che mi sento addosso l’ho raccontata inTerracottamostrando l’indissolubile legame tra la mia terra e la mia carne».Lo definiresti un legame sacrale?«Mi affascina quel che resta del sacro. I luoghi dove il sacro improvvisamente compare come una piccola epifania. Sto finendo di scrivere un libro sul sacro, sul fatto di percepirlo come il sentimento delle cose che stanno per sparire. Sacro è il momento in cui la mente si scastra. Tutti noi siamo predisposti al sacro, ma nonlo sappiamo. Non bisogna andare a Lourdes, lo si può trovare ovunque».Anche nella letteratura?«Certo, le mie poesie aspirano al sacro, lo desiderano e, spero, che a volte lo incontrino». Sei uscito dalla letteratura ufficiale per entrare dove?«Dicono, pensando di offendermi, che sono il poeta della Rete. Ma la Rete è composta di frammenti, di situazioni che comunicano velocemente, di messaggi semplici. E del grande presente. Le mie poesie vogliono rispecchiare anche quel mondo composto da decine di migliaia di persone che prima non avevano accesso alla parola. Erano mute e ora posseggono una o più voci. Molti non si sono accorti che è mutato il canone della letteratura e che l’alto e il basso sono solo comode definizioni».Vuoi dire che una lunga stagione si è chiusa?«Io non so se si è chiusa, perché qui non si chiude mai niente davvero. Ma so che le persone che mi hanno voluto bene e hanno accettato il mio lavoro erano fuori dal coro dell’ufficialità».A chi pensi?«Andrea Zanzotto, Giuseppe Pontiggia, Gianni Celati. Ciascuno a suo modo intuiva che i miei esercizi didesolazione servivano per fronteggiare il vuoto. Hai pubblicato un piccolo libro per Gianni Celati. Fu lui tra i primi ad accogliere alcuni miei racconti. Venne a Bisaccia per conoscermi. Girammo per il paese e ricordo perfettamente quando lesse Leopardi al circolo degli anziani e mi fu del tutto chiaro che ci poteva essere bellezza a prescindere dall’alto e dal basso». Hai scritto che volevi misurarti, più che con le sue storie, con i suoi pensieri malinconici e sovversivi.«È stato un rivoluzionario della malinconia e oggi, in un mondo incapace di guarire, è la sola rivoluzione che può medicare le nostre ferite. Gianni ha fatto di tutto per non posarsi ed è il solo grande maestro che mi è rimasto». C’è qualcosa di definitivo nella tua provvisorietà.«Si vive anche di contraddizioni e di ossimori. Io vivo di attacchi di panico e di ansia. Cosa c’è di più definitivo del pensare alla propria morte? E cosa c’è di più provvisorio nel tentare di combatterla con la poesia? Eccomi, mi metto a nudo con il mio corpo, con i miei salti emotivi, con i miei mal di testa. Non ho attenuanti. A volte mi chiedo dove mi stia portando questa vita che è vita perché la scrivo, o perché ne parlo. E so solo che una qualche verità la trovo nei miei pensieri impensabili».