il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2022
Un Dumas a noi sconosciuto
«Da mia parte, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’offesa della poesia, ma nascondono in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti; ed è bene incoraggiarli a deporre la falsa vergogna e il congiunto imbarazzo».
Chi sostiene che si possa leggere Alexandre Dumas senza vergognarsene è Benedetto Croce. La giustificazione la fornisce in una pagina de La Critica nel 1935 in cui tratta della non poesia: la letteratura, anche quando non è poesia, non va condannata o diminuita. Onore, dunque, allo scrittore francese fra i più tradotti al mondo, il popolare più che popolare, conosciuto da milioni di appassionati. Non ci può essere paragone, ovvio, con Marcel Proust, con Stendhal, con Charles Baudelaire: poco importa, vista sia la passione con la quale tanti, giovani e no, affrontano Dumas e considerata l’ampiezza di derivazioni letterarie, cinematografiche, teatrali, radiofoniche, e poi fumetti, citazioni, disegni animati...
Noi italiani patiamo, tuttavia, una forte disgrazia nelle traduzioni. Solo di rado sono condotte su un testo francese solido, tanto che soltanto da pochi anni sono giunte edizioni di alcuni volumi di Dumas condotte sui lavori di Claude Schopp, presidente della «Société des amis d’Alexandre Dumas». La sua attività ha fatto sì che siano sta edite versioni credibili di opere quali Il Conte di Montecristo, I tre moschettieri e Vent’anni dopo, pur se ancora manca Il visconte di Bragelonne.
Meritoriamente, dunque, arriva una traduzione che vanta di essere la prima integrale del Signore dei lupi (Le meneur de loups nell’originale), scritto in più riprese e apparso in più sedi negli anni Cinquanta dell’Ottocento. È un Dumas diremmo da noi sconosciuto, insolito, perché fantastico: forse, e meglio, gotico. Tratta di un misero zoccolaio, Thibault, il quale stringe un patto col diavolo: quando augurerà del male a qualcuno, il suo desiderio sarà accolto in cambio di un capello della testa. I capelli però raddoppieranno di volta in volta, divenendo fiammanti e non piegabili ispidi complementi del capo.
Dumas tratta, con l’accortezza nota, le lunghe vicende personali dell’uomo e della sua progressiva decadenza, fino alla sua quasi mutazione in un uomo mannaro inseguito dalla gente e circondato da lupi amici. Arriverà da ultimo lo scambio con il lupo-demone col quale si era accordato, insieme però con l’inattesa salvezza della sua anima. Notazioni autobiografiche si confondono con tratti dedicati ai più diversi strati sociali, a castelli, villaggi, case isolate, mentre amori sinceri s’ingaglioffiscono con meri divertimenti erotici.
Non sappiamo, ovviamente, quanto sia stato concepito dall’autore, quanto abbia lui direttamente scritto, quanto abbiano agito i suoi collaboratori, quanto peso abbiano esplicato i suggeritori.
È noto come egli scrivesse più romanzi contemporaneamente, tanto da essere reputato più prolifico di Georges Simenon, e come avesse a disposizione una bottega di «negri» (termine oggi politicamente scorrettissimo) che gli servivano come archivisti, storici, ricercatori, estensori. In queste pagine si direbbe che egli lasci libero sfogo a una fantasia sempre fervida, a una ricerca costante di effetti, a lezioni di vita in cui l’intendimento etico soggiace alla passione per trame, episodi, personaggi.