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 2022  dicembre 17 Sabato calendario

Orsi & Tori

È accettabile che il terzo paese industriale della Ue, l’Italia, non abbia da anni una società nazionale forte nel fondamentale settore delle telecomunicazioni (termine arcaico) e dei servizi on line? Non è accettabile. Ma la telenovela di Tim, per evitare il vecchio nome Telecom, non accenna a finire. Lo Stato ne è socio attraverso Cdp (circa il 13%), ma il socio di maggioranza è la francese Vivendi (24%), che mesi fa ha chiesto la testa dell’amministratore delegato, Luigi Gubitosi, un manager fra i più qualificati del paese. Sembrava che fosse la mossa per sbloccare la situazione di stallo, e di crisi, in cui si trovava la ex-Telecom Italia. Al posto di Gubitosi è stato nominato Pietro Labriola, con un passato di successo nella controllata in Brasile. Con questo cambio al vertice Tim ha, però, accumulato il record di quattro amministratori delegati in poco più di due anni e mezzo.

L’ultima nomina sembrava la premessa necessaria per arrivare un obiettivo razionale: la fusione della rete in fibra della stessa Tim con quella di Open fiber, controllata saldamente da CdP. Se ne parla da mesi senza esito.
Nel frattempo, il processo tecnologico viaggia a mille. E l’Italia è terra di conquista per operatori (per esempio Iliad) che puntano tutto o quasi su prezzi bassissimi e di conseguenza anche su servizi limitati, mentre il paese ha bisogno di continua e avanzata evoluzione da parte di chi, controllando le reti di comunicazione e distribuzione del segnale, ne determina lo sviluppo al passo con gli altri paesi.
Più di uno negli ultimi tempi si è esercitato a cercare di spiegare come mai Tim sia in queste condizioni, con una capitalizzazione in borsa ridicola e senza un piano che aiuti l’intero paese a modernizzarsi.

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Si sono lette le spiegazioni più varie: da quella che attribuisce il forte indebitamento alla scalata a Telecom di Roberto Colaninno attraverso Olivetti e coloro che Massimo D’Alema definì i capitali coraggiosi del nord Italia, in quanto bresciani. Altri, come il prof. Riccardo Gallo, in un recente e stringente commento su MF-Milano Finanza del 3 dicembre, intravede nella gestione di Marco Tronchetti Provera, che aveva acquistato il controllo da Colaninno e i capitali coraggiosi bresciani, un forte invecchiamento delle strutture insieme a una crescita dell’indebitamento.
Se tutti avessero gettato lo sguardo un po’ più indietro nel tempo, avrebbero dovuto scrivere che la vera distruzione di Telecom (ex Stet-Sip), leader assoluto nel mercato europeo delle telecomunicazioni, è stata la sciagurata privatizzazione (o meglio, il metodo di privatizzazione) compiuta nella stagione che in cui lo stato doveva fare cassa per poter entrare nell’euro. Non me ne voglia il mio amico Romano Prodi, che ho abbracciato anche recentemente al Tributo a Mario Monti alla Bocconi, se dico che il suo afflato europeista fu eccessivo o meglio, determinò una stagione appunto delle privatizzazione a tutti i costi, i cui frutti negativi riguardano non solo Telecom. E, intendiamoci, non era sbagliato privatizzare, tutti i più importanti paesi europei in quel periodo privatizzavano gli asset controllati dagli stati, ma veramente disastroso fu il metodo seguito e attuato dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi.

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A scandire i tempi del lancio dell’euro era stato il Trattato di Maastricht, che per l’Italia fu firmato dall’allora ministro del tesoro Guido Carli. Ma Carli da quel grande conoscitore delle condizioni in cui versava l’Italia, aveva inserito la riserva per cui al momento della nascita della moneta europea il paese che non si fosse sentito pronto poteva chiedere il rinvio, come in effetti fece, anche per ragioni post imperiali, la Gran Bretagna, volendo veder vivere perennemente la sterlina. Il nobile e autentico afflato europeista dell’allora presidente del consiglio Prodi, fece sì che quella clausola di prudenza che aveva voluto Carli nel testo del trattato non fosse utilizzata. Era quindi era necessario ridurre il debito pubblico per poter entrare nella moneta unica fin dalla nascita, appunto facendo cassa con le privatizzazioni che comunque rientravano nella linea politica della Unione Europea.
A precedere l’Italia sulle privatizzazioni era stata la Francia, che aveva inventato una sorta di modello denominato noyau dur, nocciolo duro: in pratica un gruppo di azionisti non grandissimi che mettendosi insieme avevano il controllo della società privatizzata. In Francia il nocciolo duro arrivava al 20% e più; in Italia il nocciolo duro della privatizzazione della neonata Telecom arrivava a malapena al 6,62% e all’interno di esso l’azionista maggiore era il gruppo Agnelli con qualcosa di simile allo 0,7%. E gli Agnelli ebbero la nomina del presidente nella persona di Gian Marco Rossignolo, persona intelligente ma che, anche come consigliere di Umberto Agnelli, ne aveva azzeccate molto poche.

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Un azionariato così debole permise la scalata da parte di Olivetti, guidata da Roberto Colaninno, e Lehman Brothers non ancora falciata, e una miriade di investitori che guadagnarono moltissimo nel momento nel quale il controllo passò a Pirelli, guidata da Marco Tronchetti Provera. Il quale, per poter diventare il controllore di Telecom, fu costretto a vendere la formidabile Divisione Cavi & Sistemi, per non essere in un ipotetico conflitto di interessi.
Secondo Francesco Micheli, il finanziere che allora era al centro di molte operazioni in Italia e su società italiane, il prezzo pagato da Pirelli a Colaninno e agli investitori dell’Ops Olivetti, il prezzo pagato dal suo amico Tronchetti Provera, era troppo alto. Forse aveva ragione, ma Tronchetti aveva progetti importanti per Telecom e se non avesse dovuto vendere i cavi avrebbe avuto un ottimo cash flow. Sta di fatto che due banchieri importantissimi di allora, come Giovanni Bazoli di Intesa e Cesare Geronzi di Capitalia, intervennero attraverso Mediobanca per far entrare in maniera importante nel capitale di Telecom il leader spagnolo Telefonica. Un’operazione non finita bene, mentre Tronchetti aveva lanciato il progetto di una fusione fra telefonia e televisione. Su uno yacht nel mediterraneo si era accordato per l’operazione con Rupert Murdoch, ma al governo c’era Silvio Berlusconi e l’operazione fu fatta fallire per evitare la nascita di un fortissimo concorrente di Mediaset in Italia.

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È davvero azzardato scrivere, come è stato fatto, che dopo i grandi successi dell’epoca di controllo di Stet-Sip da parte dell’Iri (la Sip è stata la prima in assoluto a varare, quasi tre decenni fa, un piano di cavo in fibra, quella stessa di fatto ora al centro del confronto CdP-Vivendi), a far arrivare vicino al fallimento Tim è stata la gestione di Tronchetti Provera. Il baco, che scava ancora nella società, risale alla privatizzazione fatta in quel modo assurdo imitando il nocciolo duro francese, ma di fatto realizzando un nocciolino, piccolo piccolo, che non garantendo il controllo della società ha determinato tutto quanto è successo dopo. Una lezione che lo stato o, meglio, il governo italiano deve tenere a mente mentre fervono le discussioni sulla possibile fusione della rete di Tim e di Open Fiber.
Per favore, questa volta, se si vanno a cambiare gli assetti e l’attività, si tenga presente che un paese oggi non può rimanere competitivo se nel settore non c’è un leader assoluto, capace di reggere la concorrenza internazionale. E Dio sa se l’Italia ha bisogno di un forte supporto tecnologico. Quindi, Onorevole Presidente, Giorgia Meloni, dia una delle sue poderose spinte al ministro Adolfo Urso e ai capi di Open fiber (l’ad di CdP, Dario Scannapieco, è un ottimo manager) perché si venga rapidamente a un accordo, oppure che si dica definitivamente che l’accordo non è possibile. Ciò a cui è impossibile assistere è lo spettacolo di incertezza in scena ormai da più anni.

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Il mondo è in mano alle banche centrali? O meglio, dipende dalle parole che, dopo le mensili riunioni, escono dalla bocca dei presidenti di Bce e Federal reserve, per parlare del mondo occidentale?
Purtroppo sì, se si parla di questi tempi tempestosi; per fortuna sì, quando ai vertici delle banche centrali c’erano veri banchieri. Basta ricordare che con tre parole in inglese, pronunciate prima a Londra e due giorni dopo nella conferenza stampa della Bce, Mario Draghi determinò la salvezza non solo dell’Italia e dell’Europa, ma influenzò il mondo intero. Quelle parole, è perfino pleonastico ricordarlo, furono: Whatever it takes, in italiano: Tutto ciò che è necessario. Era dieci anni fa e da Francoforte partì la rimonta da una crisi economica che era stata fra le più funeste del mondo occidentale. Ma questa è appunto la versione positiva di cosa possono valere le parole di un banchiere centrale; nel caso di Draghi, sfidando in consiglio Bce il voto contrario nientemeno che del presidente della potentissima Bundesbank Jens Weidmann, egli non esitò a mandare il messaggio per cui per difendere l’euro e l’economia dell’Unione la banca centrale avrebbe appunto emesso tutta la liquidità che serviva e comprato tutti i titoli di stato dei vari paesi, che stavano, in alcuni casi, cadendo a picco.

L’esempio contrario, in negativo, lo si ha per le parole pronunciate giovedì 15 dalla attuale presidente della Bce, la grintosa e volitiva francese (non esitò a dichiarare che, nonostante l’età, avesse regolari rapporti con il suo compagno) Christine Lagarde, ex-avvocato d’affari, più volte ministro e come unica esperienza bancaria la posizione di managing director al Fondo monetario internazionale, dove conta più la politica che la competenza bancaria e finanziaria. Massimo Intropido, uno dei più lucidi analisti del mercato, dai microfoni di Class Cnbc ha commentato così la conferenza stampa del giorno prima della signora francese, elegantissima con sciarpa viola: «Come al solito ha voluto, con le sue parole, accontentare tutti. Il che non è possibile, perché questo è il momento delle scelte, o combatti con aggressività l’inflazione, o annunci lo stop della crescita dei tassi. Il suo discorso è stato talmente ambiguo che un’agenzia lo ha interpretato come l’inizio dello smontaggio del Pepp (Pandemic Emergency purchase program), cioè del progetto di acquisto titoli che aveva sostituito il più tradizionale Quantitative easing, mentre non è così. E poi la presidente ha esagerato, chiudendo il discorso con “e mi aspetto una serie di ulteriori rialzi”». Insomma, un messaggio che ha completamente confuso i mercati, i quali il giorno dopo hanno avuto inevitabili cadute, proprio mentre non pochi anche in Usa cominciano a mettere in discussione la politica dei tassi alti. Insomma, proprio quando regna l’incertezza occorre che i banchieri centrali siano i più netti e univoci possibile. L’incertezza del banchiere centrale equivale a moltiplicare l’incertezza dei mercati e in questi casi finiscono per prevalere sempre i pessimisti giocatori al ribasso.

E il problema di comunicazione non c’è solo alla Bce ma anche alla Fed: «Abbiamo visto un presidente Powell che quasi balbettava, era chiaramente sulla difensiva e anche lui, esponendo, è andato oltre, come aveva fatto la Lagarde per la Bce, rispetto a quanto scritto nel comunicato ufficiale della Fed», ha commentato ancora Intropido.
Risultato, proprio le parole dei due presidente, e in particolare di Lagarde, hanno avuto un effetto negativo per i mercati e i titoli di stato italiani in particolare: il rendimento del decennale è salito al 4,28% e lo spread Btp-Bund è arrivato a 213 punti.
Tutto ciò, andate a rileggerla, mentre nell’intervista esclusiva a Francesco Ninfole di MF-Milano Finanza del 6 dicembre, ripresa dai media di tutto il mondo, il capo economista della Bce, Philip Lane, che è anche membro dell’esecutivo della banca centrale Europe, ha dichiarato letteralmente: «Ci sarà una riduzione significativa dell’inflazione in primavera o estate e la recessione sarà lieve».
ItaliaOggi crede più al capo economista che alle dichiarazioni confuse dell’intrepida presidente Lagarde. (riproduzione riservata)