il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2022
Intervista ad Alberto Grassi, ex assistente parlamentare di Panzeri. Dice che era arrogante, che lo sfruttava e che lo mandava a spiare altri politici
“Era spregiudicato, autoritario e arrogante. Lavorare con lui è stata un’esperienza terribile, tanto che mi licenziai dopo pochi mesi. Preferivo la disoccupazione”. Alberto Grassi, 34enne iscritto al Pd, è il vicesindaco di Bollate, alle porte di Milano. Nel 2013 anche lui è stato assistente parlamentare di Antonio Panzeri, lavorando al fianco di Francesco Giorgi e Giuseppe Meroni, i due portaborse coinvolti nel Qatar-Marocco-Gate. A differenza loro, però, Grassi ha lasciato il posto quasi subito, esasperato dai modi padronali dell’ex sindacalista. E in particolare da alcune richieste lavorative borderline.
Vicesindaco, cosa c’era che non andava?
Intanto ero assunto in modo irregolare. Il contratto prevedeva quattro ore al giorno, ma l’accordo tacito era che ne facessi almeno otto. Quindi, di fatto, la metà del mio lavoro non era retribuito. Per evitare problemi Panzeri aveva fatto inserire una clausola di variabilità, così, in caso di controllo, la mia presenza sarebbe stata giustificabile in ogni orario.
Che lavoro faceva per lui?
Oltre al lavoro di ufficio, la sera o nei fine settimana lo accompagnavo ai suoi appuntamenti con i miei mezzi: all’epoca non avevo nemmeno un’auto mia, così usavo quella di mio padre. Di solito incontrava i suoi interlocutori nei ristoranti di lusso oppure nelle vip lounge degli aeroporti.
Che genere di persone incontrava?
Di tutti i tipi: dirigenti politici e sindacali, ma anche imprenditori e avvocati. In quegli anni era estremamente potente e influente in Lombardia. Ovviamente non parlava solo del suo mandato a Bruxelles, ma dava indicazioni su quali candidati a questa o quell’altra elezione, oppure suggeriva persone da nominare in questo o quell’organismo. In particolare in quel periodo seguiva molto da vicino la crisi di Alitalia e le sue vertenze.
Dice che il lavoro con lui era “terribile”. Come mai?
Intanto per l’aspetto umano: era di un’arroganza e supponenza incredibili, guardava tutti dall’alto in basso. C’è un aneddoto su di lui che si ripete di continuo a Milano: pare che fin dai tempi della Cgil portasse con sé in ufficio la foto di un clochard, che indicava a quelli che lo contraddicevano. E diceva: “Secondo te, tra me e te chi è più facile che faccia questa fine?”. Poi c’era qualcosa che non mi tornava sui rimborsi delle trasferte, avevo la sensazione che se ne approfittasse (nel 2017 era stato condannato a risarcire 83 mila euro a seguito di un’inchiesta interna, ndr). Ma a far traboccare il vaso è stato un episodio particolare.
Ce lo racconti.
Un venerdì sera mi chiese di andare a scattare di nascosto delle foto a Onorio Rosati, il suo successore alla segreteria della Camera del Lavoro di Milano, a un incontro in provincia di Bergamo in programma il mattino dopo. Voleva sapere se a questo appuntamento c’era qualcuno con cui lui si era scontrato di recente: insomma, capire se Rosati obbediva a lui oppure no. Era quasi paranoico, vedeva nemici ovunque. Gli dissi che non sarei andato. Il lunedì mattina in ufficio mi fece una sceneggiata inaccettabile, io mi alzai e me ne andai sbattendo la porta. Da allora non ho avuto più niente a che fare con lui.
Cosa ha pensato leggendo dello scandalo?
Sapevo che Panzeri è spregiudicato e che non si fa scrupoli per ottenere quello che vuole. Mi ricordo che si compiaceva perché lo chiamavano “panzer”, nel senso che non si fermava davanti a nulla, come fa un carro armato. Ma non avrei pensato che arrivasse fino a questo punto.