la Repubblica, 17 dicembre 2022
La terza via in cui si è smarrita la sinistra
Un congresso anticipato, convocato con urgenza su un solo tema: la questione morale. Non sarebbe forse questo un gesto chiaro, drastico, drammatizzante a sufficienza da poter essere una risposta del Pd al suo impaccio e alla sua crisi? Alla domanda rivolta ad Andrea Orlando, due giorni fa, durante una puntata di Metropolis, il podcast tv del gruppo Gedi condotto da Gerardo Greco, uno dei leader del Pd, che è anche esponente di spicco della sinistra interna, mi ha risposto «sì, ma aggiungerei alla questione morale, la questione sociale».
Non c’è stata possibilità di replica, per cui approfitto di questo spazio: il fatto è che le due questioni non sono diverse. La prima comprende anche la seconda. Un partito sulla cui etica gravano ombre, non può avere nessun impatto sociale. Il livello di fiducia nella integrità di un partito è la ragione fondante della fiducia politica che gli si tributa. Si può davvero rilanciare l’iniziativa «nei confronti degli strati più deboli della popolazione» (citazione della frase chiave ripetuta dal Pd sulla sua crisi di consenso) portandosi dietro l’odore del dubbio sulla propria integrità?
Il tanto venerato «noi abbiamo le mani pulite» di Berlinguer è stato – e oggi non a caso torna alla ribalta – il pivot di un rilancio e di un consolidamento del Pci negli anni Settanta. È stato soprattutto lo scudo di quella anticipata (il discorso al comitato centrale del Pci è del 1974) intuizione sullo stato delle cose in Italia, che ha fornito al Pci la forza per diventare trainante nel cambiamento del Paese, sconfiggendo, con il semplice atto di porsi come garante etico del Paese, il famoso fattore Kappa.
Andiamo dunque dentro le parole che pronunciò Berlinguer. Tanto citate ma forse poco rilette. Vi troveremo un legame profondissimo tra la critica della forma partito e la questione morale: «Si metta fine ai finanziamenti occulti, agli intrallazzi, alle ruberie, al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere. In questo campo, ciò che innanzi tutto conta, al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla “classe politica”, sono i fatti, le decisioni politiche e parlamentari». Dunque si definisce qui, nel Comitato Centrale del Pci nel giugno del 1974, la definizione di eticità non tanto, o non solo, come corruzione “materiale” (soldi) ma come scelte che si fanno nel governo della nazione.
Il discorso si fa ancora più chiaro nell’intervento in Parlamento del febbraio 1976 in cui, attaccando la Dc, Berlinguer elenca quali sono i «peccati» etici – i malanni e i guasti più rilevanti –, quelli del sottogoverno, del clientelismo, delle spartizioni del potere, delle confusioni tra pubblico e privato, delle commistioni tra potere politico e potere economico, dell’inceppamento dei meccanismi del controllo democratico, dell’abitudine all’impunità». Se oggi dovessimo riprendere questa lista come indicazione delle scelte da evitare, sarebbe il Pd senza peccato?
La forza della proposta di Berlinguer è proprio nel non definire la corruzione con gli ovvi reati, punibili già per vie legali (le valigie piene di denaro), ma rivelarne l’elemento sistemico di deviazione della democrazia. Nel luglio del 1981, parlando con Eugenio Scalfari, questa sua visione si è fatta compiuta: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss».
Sono solo io a vederci dentro una cruda descrizione del presente?
Dunque, quando si parla della rappresentanza della sinistra, della sua perdita di consenso, significa farsi altre domande che non siano quelle che finiscono con «non andiamo più dove la gente ha bisogno». Questa assenza è vera. Ma è sulle sue radici che occorre interrogarsi. Introduco qui – e mi scuso per semplificare una discussione molto, troppo, ampia – una domanda che è secondo me alle radici dei nuovi terreni su cui si muove la politica da almeno un paio di decenni: esattamente quando la sinistra ha sdoganato i soldi? Quando è successo che “fare soldi” è diventato più importante di avere una convinzione politica? Una data forse c’è, o, per lo meno, è proponibile. La racconta la firma di Raffaella Menichini per Repubblica: «L’appuntamento è di quelli da “grandi numeri": per i sei capi di Stato e di governo – Bill Clinton, Massimo D’Alema, Tony Blair, Lionel Jospin, Gerhard Schroeder, Fernando Cardoso – e le altre personalità – da Hillary Clinton, più che mai protagonista, al presidente della commissione europea Romano Prodi – la città ha mobilitato un apparato organizzativo di alto livello. Tremila addetti alla sicurezza italiani, un migliaio di giornalisti e una trentina di reti tv accreditati da tutto il mondo, migliaia di linee telefoniche allestite, esaurita buona parte delle strutture alberghiere della città».
La data è il 1999, novembre, il luogo è Firenze, l’evento è di quelli che segnano il passo di una storia, o forse della Storia. Il vertice sul «Riformismo nel XXI secolo». La capitale dell’arte italiana è scelta non a caso per compiacere quello spirito straniero che vive l’Italia come la capitale del Rinascimento – Renaissance weekend si chiamano appunto i seminari nati a inizio 1981 per il confronto dentro le élite Usa, divenuti poi una delle bandiere del clintonismo. A Firenze si celebra il punto più alto cui sia arrivata la sinistra, in epoca di nuova rivoluzione industriale tech. Mai prima i capi di Stato dei più importanti Paesi dell’Occidente sono stati tutti democratici – e mai prima i capi di Stato sono stati così giovani. Eccetto per Jospin, sono intorno ai quarant’anni, sposati con donne che tutto sono meno che numeri due nella coppia – l’avvocatessa Cherie Blair (gloriosamente incinta), Hillary Clinton di fatto la vicepresidente del marito. E se le loro provenienze sociali sono umili, sono titolatissimi da eccellenti università – Yale, Oxford, e Normale di Pisa, fra le altre.
Sono i boomer che arrivano al potere. Svezzati a un nuovo profilo da Anthony Giddens, sociologo e politologo britannico, ispiratore delle politiche di Blair, che ha scritto un libro seminale, «La terza via». A celebrare la quale si riunisce a Firenze la nuova classe dirigente, la sinistra globale. La Terza via è esattamente quel che si capisce dal nome: terza rispetto alla vecchia socialdemocrazia statalista, e alle diseguaglianze del neoliberismo. La sinistra, sulla spinta dai successi della globalizzazione, convinta dunque che il capitalismo abbia raggiunto una fase di produzione inclusiva di ricchezza, inserisce nella passiva idea di sostegno per i poveri, un ritorno “dinamico” del concetto di libertà di iniziativa, di “merito”, e anche di arricchimento come molla dell’ascensore sociale. Il nuovo capitalismo, d’altra parte, ha bisogno di menti “educate” dai migliori studi e di uomini e donne intraprendenti, in grado di sostenere innovazioni e avventure. Clinton arriva in Italia con otto anni di crescita, venti milioni di posti di lavoro, e conti pubblici in pareggio. Ci sarà pur qualcosa di buono nel ritorno di una leadership che torna a credere in liberalizzazioni, mercato e competitività.
Nel grande festeggiamento di Firenze si celebra in effetti oltre ai successi della generazione dei boomer, il matrimonio quasi impossibile fra Stato e liberalizzazioni, e fra politica e denaro. Se il mercato infatti è un aiuto nella lotta per l’uguaglianza, se ne deduce che anche il denaro non è più lo sterco del diavolo. Semplifico, ma quel punto può essere indicato anche come la disconnessione con le regole della vecchia etica di sinistra.
Quello è dunque il momento in cui una carriera politica si metamorfizza in altro. Non si parla qui di corruzione, perché le attività di questi ex premier non sono illecite, se sono pubbliche. Ma sicuramente sono attività che cambiano la caratura della politica. Lo sdoganamento del rapporto fra potere e soldi è in fondo questo: aver innestato nella politica, accanto al discorso valoriale, il senso che essa è anche un legittimo passaggio verso un altro percorso più remunerativo.
Non è assolutamente un caso che i premier di quell’appuntamento sono poi quasi tutti passati, alla fine della loro carriera politica, in ruoli di lobbismo di altissimo livello e alta remunerazione. Schroeder, Clinton, D’Alema, Blair. Mantenendo per altro molta influenza sulla politica dei propri Paesi. Parafrasando von Klausewitz (lettura molto in voga in quegli anni), il successo economico come continuazione della politica.
La Terza via è poi caduta in disuso, abbandonata, ma l’innovazione è rimasta: una eredità che altri politici e leader venuti dopo quella prima generazione hanno infatti raccolto. —