la Repubblica, 17 dicembre 2022
Non sono le parole a fare il colonialismo
Ci sono parole in sé offensive? Facile rispondere di sì, ma invece la parola non basta. Se una data parola è interdetta, l’intenzione offensiva ne troverà di nuove e magari neutre per esprimersi. “Etiope” è una parola offensiva o no? Qualcosa come quattordici campionati mondiali di calcio fa, il telecronista Nicolò Carosio passò un guaio per aver deprecato le decisioni di un guardalinee chiamandolo “l’etiope”. Quell’uomo era in effetti etiope e non si può escludere che alla qualifica Carosio avesse dato una sfumatura ostile. Che una volta sia stata usata in modo razzista è un buon argomento per decidere di interdire una parola come “etiope”?
Proprio mentre ci si poneva la questione è stata pubblicata l’interessanteGuida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione di cui ieri Repubblica ha parlato con l’antropologa Fiore Longo.
Il fatto è che a proposito della conservazione della natura si usano espressioni che risultano quantomeno inadeguate. “Wilderness”, cioè l’idea di una natura selvaggia e incontaminata, è un mito coloniale. Istituire dei parchi naturali e delle riserve faunistiche come “fortezze” serve a isolarne le popolazioni native che sinora tale conservazione hanno garantito e porre le condizioni perché quei territori si rendano disponibili allo sfruttamento turistico, minerario, commerciale. “Viaggiatori” pare un termine neutro per i turisti, spesso occidentali; “nomadi” è invece un termine che può caricarsi di connotazioni negative ma si riferisce a popolazioni che del tutto legittimamente vivono di attività che le portano a attraversare i territori. Si parla di “trasferimenti” per operazioni chespopolano i territori in modo del tutto coatto e a volte violento, non certamente per il desiderio spontaneo di abbandonarli da parte di chi ci è nato e li abita. Si parla di “sovrappopolazione” e così si addossa il problema alle popolazioni che proliferano e non a quelle che più sfruttano le risorse del pianeta.
A proposito della rilevanza di questi problemi abbiamo molto da imparare dall’antropologia, dalla ricerca sul campo e insomma dalla conoscenza diretta.
Ma si tratta davvero di problemi di parole? Prendersela con le parole è facile e molto pratico e va incontro a quel pigerrimo luogo comune che vuole che le parole siano importanti, giacché chi parla male, pensa male e vive male (se bastasse parlare bene per vivere bene i poeti lirici non sarebbero tanto tristi).
Dei termini esempi riportati ieri daRepubblica è invece sintomatico che “wilderness” non abbia neppure un equivalente in italiano (se non si vuole tener conto di quella “selvaggeria” che Angelo Guglielmi coniò in anni remoti per descrivere il tipo di femminilità di Alba Parietti). Se siamo invitati a non pensare più all’ambiente africano in termini di “wilderness” è facile rispondere che in Italia non lo si è fatto mai, perché italiano il termine non è.
Così come l’idea di “conservazione come fortezza”, idea che si capisce solo dopo qualche ulteriore spiegazione. Il punto è che il turista non si rende conto che quelli che per lui sono “parchi naturali” in realtà funzionano come fortezze che escludono chi è nato sul territorio.
Bisognerebbe smettere di chiamarli “parchi naturali”? Trovando una denominazione meno eufemistica si risolverebbe il problema? Si sarebbero almeno fatti passi avanti?
Il colonialismo, il razzismo, l’antiegualitarismo si possono certo riconoscere anche dal lessico in cui si esprimono, ma normalmente danno di sé segni più certi. Ammesso che sia realmente possibile (e non lo è) togliere loro le parole non equivarrebbe a togliere loro la voce.