la Repubblica, 17 dicembre 2022
In morte di Sinisa Mihajlovic
Gabriele Romagnoli per la Repubblica
Non ha perso l’ultima battaglia, quella ha lo stesso risultato per tutti. L’ha combattuta con la forza di molti, ma pochi ne conosciamo. Di lui, Sinisa Mihajlovic, abbiamo avuto una cronaca spietata, a tratti indebita. C’è una frenesia che induce alla rivelazione come sfoggio. L’ultima apparizione diceva già tutto: accanto a Zeman, esile nel cappotto improvvisamente largo, affidava la vigoria al pizzetto scuro e l’ottimismo allo sguardo dietro le lenti. Poi ha girato la curva, consegnandosi alla protezione della sua famiglia.Un personaggio a strati contrapposti (duro, ma in fondo generoso; umano, poi strafottente), che ha diviso pure da malato perché niente e nessuno più unisce e perché non era nella sua natura provarci, mediare, compiacere. Quando allenava il Milan frequentava, da convertito cattolico, una chiesa vicino al campo. Fu visto spiegare il vangelo alle 7 e 30 del mattino ai bambini. Disse loro: «Le persone cambiano». Lo ha fatto anche lui, ma per estensione. Non ha voluto rinunciare agli amici pur se imbarazzanti o pericolosi («A cinquant’anni è difficile farsene di nuovi») confondendo talora la lealtà con la ragione. Ha espresso le sue opinioni anche quando erano impopolari. Perfino quando non erano richieste, forse per sdegno della popolarità.
È stato un calciatore esplosivo, un allenatore energico, un uomo all’antica. È cresciuto in una città jugoslava (Borovo) priva di ospedale. Famiglia umile, legami forti. Si è commosso in diretta, durante una trasmissione sportiva. Avevano mostrato un servizio girato nella sua terra d’origine. Il fratello aveva raccontato che il padre faceva un lavoro usurante e ogni anno la fabbrica gli regalava un paio di scarpe nuove. Una volta chiese e ottenne un cambio: rinunciò alle proprie per avere un paio di scarpe da calcio per Sinisa, con i lacci e i tacchetti. Era il suo modo di dirgli: diventa un calciatore, ma soprattutto diventa un uomo. I padri, quando riescono, ci indicano la strada e quando possono ci danno le scarpe con cui percorrerla. Ha fatto lo stesso con i suoi figli, cinque dalla moglie Arianna e uno riaffiorato da una storia passata. Le ragazze, soprattutto, gli assomigliano: veementi e spettacolari, innamorate di calciatori.
Tirava punizioni che, misurate, facevano correre il pallone a 160 chilometri orari. Tre in rete nella stessa partita, ventotto in Serie A. Uno scienziato gli attribuì l’esecuzione del “rigore perfetto”. Sbagliato il primo tentativo, si era ripresentato dal dischetto tirandodalla stessa parte, ma aumentando la potenza e angolando di più. Come se la sua gamba fosse uno strumento che potesse regolare. Il tiro da fermo, eseguito in quella maniera, rivelava la capacità di sprigionare forza, incanalando un sentimento di rabbia o rivalsa. Soltanto nel finale arretrò per guidare l’azione davanti alla difesa, cercò dentro di sé quelle forme di ordine che l’esperienza doveva avergli insegnato.
Da allenatore cominciò alle spalle di Roberto Mancini, che lo sentiva come un complice a coprirgli le spalle e si scostò perché trovasse il suo spa zio. Non ebbe mai la stessa fortuna. Riusciva bene quando c’era da risalire. Guidava rimonte inserendo attaccanti, ma negli inizi ad armi pari soffriva. Non era lasua lotta. Se la cavò da solo, faccia a faccia, con gli ultrà della Fiorentina che non lo tolleravano. La fotografia di lui, ai cancelli che li affronta, racconta di un carattere e di un desiderio inesausto di non arretrare mai, a torto o a ragione, in ricchezza o in povertà, in salute o in malattia.
Il suo destino era a Bologna. Lì aveva cominciato ad allenare e non aveva saputo trovare la via della salvezza. Ci era tornato per saldare un debito e ci era riuscito. Non era pensabile che poi, a cinquant’anni, dovesse inseguire la propria, di salvezza. È a quel punto che anche l’Italia disinteressata al calcio lo ha conosciuto, che i suoi avversari (non tutti) lo hanno perdonato, che la città lo ha adottato (non per sempre). Le processioni nel suo nome e per la grazia da lui ricevuta. La cittadinanza onoraria (con polemiche). La partecipazione al festival di Sanremo. Quella delle figlie al Grande Fratello Vip. Libri. Le interviste lontane dagli stadi. L’esempio, l’esempio. I medici che ammonivano (a microfoni spenti): attenzione a non farne il modello unico, il trapianto è riuscito, ma il male può tornare, con qualsiasi carattere lo si affronti. È tornato. Lo ha riaffrontato con lo stesso carattere.
Nel maggio del 2020 venne diffusa un’immagine in cui correva, allenandosi da solo. Smagrito, rivelava infine i pochi capelli. Sembrò passata un’epoca da quando riusciva difficile trovare qualcosa di più dolorosamente simbolico della sua vicenda. La fragilità dell’uomo forte. Il guerriero che combatte da un letto. Poi, si era stati travolti dall’impensabile. Si erano imposte nuove unità di misura per la sofferenza. Chiunque sopravvivesse oltre il confine della pandemia era sembrato improvvisamente distante, impegnato in un altro campo. L’esperienza del dolore non è mai veramente collettiva. È la somma di tutte le esperienze individuali che lo affrontano. Ogni uomo corre da solo, inseguito dall’ombra. Il cappello in testa. I pensieri confusi. Le mani in tasca. Seduto in panchina. Esonerato, ma sarebbe stato più giusto dire: congedato, come un soldato che non può più farcela. Non ci sono mai state retrovie nella sua storia, soltanto un fronte dopo l’altro.
Simone Monari per la Repubblica