La Lettura, 17 dicembre 2022
Le interviste di Celati
Si parla molto in una vita (troppo, si pensa nelle giornate un po’ così). Talvolta con piacere, altre volte malvolentieri. Se la miglior forma di conversazione è la chiacchierata a briglia sciolta in cui non c’è nulla da dimostrare, la peggiore è senz’altro l’interrogatorio, specie se condotto con mezzi coercitivi, ma in cui comunque ci si deve giustificare. L’intervista sta esattamente a metà strada tra i due estremi, in qualche misura contenendoli entrambi. Difficilmente l’intervistatore avrà elettrodi e tenaglie, ma una qualche forma di messa in questione dell’intervistato è inevitabile anche nei peggiori soffietti.
Se tutto questo è vero, allora bisogna dire che Gianni Celati (del quale il 3 gennaio ricorrerà il primo anniversario della scomparsa) è stato maestro assoluto, oltre che della narrazione, del saggio e della traduzione, dell’ibrido «intervista». Per convincersene basta leggere le oltre seicento pagine de Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, curate amorevolmente da Marco Belpoliti e Anna Stefi, dove si raccoglie circa la metà delle interviste che Celati ha rilasciato.
Magari diremo dopo in breve dei cosiddetti contenuti (nulla peraltro che Celati non abbia esposto, contraddizioni comprese, nei suoi saggi): preme prima di tutto segnalare a chi legge la straordinaria arte mimica del Celati intervistato.
Così come per lui non c’era parola degna di essere scritta se recisa dal flusso del parlato, emerge da queste interviste un’immagine ottica irresistibile che a volerla descrivere si presenterebbe grosso modo così.
Un signore visibilmente malinconico, e come tutti i malinconici esposto a quegli squassi improvvisi di ilarità che fanno la sostanza dei suoi primi romanzi. Visibilmente infastidito, anche nelle situazioni più amichevoli, il che lo porta a essere reticente e insieme puntiglioso nelle repliche («non so», «non proprio», «non è che l’ho deciso»), e per contro, talvolta, un po’ verboso nelle definizioni, che affabula più che sciorinare – ma affabulare una definizione, riflettiamoci un attimo: chi altri saprebbe? Né giovane né vecchio. Mite, a un orecchio disattento, mentre non ci vuole il cornetto acustico per sentire quanto iracondo possa essere il sostrato da cui scaturiscono i suoi sconsolati appelli alla felicità. Polemico, contro la «letteratura industriale», e fino a qui chiunque ha gioco facile, anche quelli che la fanno, ma più in generale contro tutto l’individualismo moderno da Thomas Hobbes in giù, anche se lui di persona è grande amante e praticante della solitudine, che rende seduttiva con le sue parole quanto le comunità immaginarie, i clan e i piccoli popoli, rischio di cloni compreso, che si è davvero creato nella vita. In possesso di un cultura sfasciata (per i non romani: enorme) che fa di tutto per mascherare, e di una conoscenza per lunga frequentazione della filosofia che emerge quasi a suo dispetto («se vogliamo essere idioti parliamo di Spinoza», oppure quando tenta di spiegare Martin Heidegger a Freak Antoni, il leader degli Skiantos, che lo intervista sui Beatles) perché sa quanto lo isoli da coloro alla cui voce vorrebbe far assomigliare la sua – i matti, i «semplici», i banali, convinto com’è che non ci sia nulla di banale e che il banale è nello sguardo di chi osserva.
Non fa il divo, Celati, ma nemmeno il bel neghittoso, il Duca infastidito, il Don Abbondio che si dice disposto sempre all’obbedienza pur di sgattaiolare. Non ha particolare paura di ripetersi, né all’interno della singola intervista né in quelle rilasciate prima o dopo. Parla come chi a finire in un corpus non ci pensa proprio. Ma la sua è una ripetitività che ha la forma del tema con variazioni. Le idee di base non cambiano sostanzialmente mai. Ma l’affinamento dei concetti (da lui tanto odiati a vantaggio dei «percetti», che a differenza dei primi non inscatolano il mondo) è continuo anche se non progressivo. Una certa parola, che a chi lo ascolta pare già sufficientemente esatta, non basta quasi mai a Celati, e la si ritrova mutata, magari di poco e pur nella stessa area semantica, in altri testi.
Il suo pensiero è un pensiero che si cerca perché sente di essersi sperso, non si sa quando ma non in quanto singolarità, piuttosto in quanto specie umana. Mitezza sì, ma senza temere di spararle grosse. Nel libro ci sono più sentenze su cosa sono: l’umanità, il linguaggio, il raccontare, il mondo, la realtà (cosiddetta), il reale (inteso come intoppo, ma fecondo), la modernità, la storia (cattiva), la tradizione (buona ma la si trova solo tra i matti), l’immagine, il rapporto tra la musica e la frase, l’Occidente (capita anche ai migliori...), la morte, il tempo, di quante un qualunque Orazio potrebbe sperare di trovarne nel suo libro di filosofia. Per contro, pochissima autobiografia. Mi è capitato... Stavo male... Ghirri e altri fotografi mi han chiesto...
Traccia preziosa il fatto che l’eroe del suo secondo romanzo, Guizzardi, avesse la stessa cadenza verbale di sua madre – che in Celati ci sia un tema incestuoso è convinzione radicata di chi scrive, ma se non ne parla nessuno vuol dire che non sarà vero. Essere una singolarità non vuol dire cedere dati allo stato civile («stato civile!», protesta sempre Celati davanti alla narrativa realistica, e la formula del resto è di Honoré de Balzac, o a certe domande troppo «storiografiche» su di sé): al contrario.
Come tutto Celati, anche queste interviste si leggono con estremo coinvolgimento anche quando fanno un po’ arrabbiare perché interviene il sospetto che un pochino ci faccia. Nulla a che vedere con la pena che suscitano, per esempio, quelle a Carlo Emilio Gadda o a Italo Calvino. Lì sì che si sente la tortura, il groppo in gola, il topo in trappola. Celati non taglia mai corto, anche trasposto in iscritto è orale ma mirabilmente articolato, parla di aloni di esperienza ma per vie diritte: la descrizione di una confusione, diceva il suo amato Walter Benjamin, è cosa diversa da una descrizione confusa. Può darsi, fondo fondo, che persino si diverta. Qualche volta, almeno, anche se non gigioneggia mai.
Sarà anche per questo che di rado chi lo intervista lo contraddice frontalmente. Altre motivazioni possono essere: la paura di farlo incazzare (sit venia verbo, ma è l’espressione più esatta); il fatto che di rado ci si trova di fronte a una persona così intelligente; la totale assenza, nei suoi lunghi periodi in cui ricorre così spesso il sospettatissimo pronome «io», di qualunque traccia di ego, anche se nella vita ce l’avrà avuto come tutti. Viene sempre da dargli ragione, il che di solito è un limite ma nel suo caso no. Nella sua bella introduzione, Marco Belpoliti parla in proposito di un «nichilismo dolce». Nichilismo maligno è quando ogni enunciato vale un altro. Mentre tutto il lavoro di Celati è stato restituire dignità alle apparenze, non intese come ideologia ma come manifestarsi, aprirsi di un qualcosa che c’è sempre anche se in forma di squarci, aperture, apparizioni.
Qui ci starebbe bene il discorsetto sui contenuti: le idee di Celati (lui si affretterebbe a dire che non sono sue). Ma non lo abbiamo in fondo già fatto? Nessuna forma discorsiva è più prona dell’intervista alla cattiva apparenza. Che Celati sia riuscito a disinnescare questo dispositivo genera la stessa meraviglia che promana da tutta la sua opera. E la stessa arresa, felice gratitudine.