La Lettura, 17 dicembre 2022
Strane creature
Shaun Tan è tornato in libreria con Creature (Tunué), una raccolta di appunti, disegni, quadri e schizzi di uno tra i più evocativi illustratori contemporanei, uno dei pochi che non ha bisogno di parole per raccontare storie emozionanti. A pagina uno c’è un disegno di dinosauri fatto quando aveva tre anni. Bello che i suoi genitori l’abbiano conservato, e quindi gli domando: avevano già capito di avere tra le mani un artista? «Tutti noi nasciamo artisti, e non credo che il mio primo disegno sia così speciale. C’è l’abilità mimica di riprodurre le forme e molta pazienza. Tutte cose che ho ereditato dai miei genitori: mio padre è un architetto e aveva un ufficio pieno di progetti, e mia mamma era bravissima a disegnare, anche se la famiglia non l’ha mai incoraggiata. Quindi sono nato in una casa piena di disegni, dove era facile mettere le mani su penne, colori ed enormi fogli di carta».
Che scuole hai fatto?
«Sono andato a una scuola superiore specializzata in arti visive, e fino ad allora non avevo mai incontrato nessuno che vivesse d’arte, né pensato potesse essere un lavoro vero. I miei insegnanti non erano benestanti, ma nemmeno derelitti e, soprattutto, mi sembravano felici e interessanti. Per un pelo non ho fatto biotecnologia, ma poi, a partire dai 17 anni, ho cominciato a illustrare storie di fantascienza per i vari dipartimenti universitari, o a fare poster di festival e convention. Finita l’università mi sono dato un anno da freelance per vedere se ce l’avrei fatta. Ed è stato un anno molto difficile, in una città piccola come Perth...».
Ma, come dice il titolo di una tua mostra, «Every Place is the Place», no?
«Sei sempre tu che decidi cosa vedere. Io sono nato in Australia in un luogo remoto, geograficamente e culturalmente, alla periferia di una delle città più isolate del mondo, a 2.500 chilometri da quella più vicina, un posto che solo 150 anni prima era un avamposto dell’Impero inglese, terra di bulldozer, case in costruzione, senza un senso di identità né di legame con la storia indigena precedente. Quando ero un ragazzino pensavo alla mia casa come a un posto noioso, spiritualmente vuoto, da cui scappare attraverso film e libri. Ma, poi, nella mia adolescenza, quando ho cominciato seriamente a pensare di fare una carriera artistica, ho iniziato a dipingere quelle strade, parchi e spiagge e le ho trovate affascinanti. C’era una poesia intrinseca nei cavi elettrici, nei saloni, vicoli, centri commerciali e parcheggi. E ho capito che i miti che mi piacevano potevano anche avere a che fare con il paesaggio post-industriale e post-coloniale di quei posti. E ne ho fatto le “mie” foreste selvagge».
Noi europei conosciamo i miti aborigeni e i loro dèi che camminano nel mondo durante il Tempo del Sogno grazie a Bruce Chatwin, che però si era inventato una buona metà di ciò che aveva scritto. Cosa ne pensi?
«I miti sono storie, che possono essere giuste o sbagliate, il Tempo del Sogno degli aborigeni, come la Bibbia degli europei: hanno un’anima stravagante, elementi chiaramente incredibili, come un serpente che rende vivibile un intero continente, o un altro che invita una donna appena nata dalla costola di un uomo ad assaggiare un frutto proibito. Ma, a prescindere dalla storia, la vera prova della loro potenza è quanto siano in grado di persistere nella nostra memoria, e le storie del sogno, per qualche motivo strano, lo sono. Come le favole dei Grimm, di cui quasi tutti si ricordano le più assurde, quella di un cannibale che vive in una casa di pan di zucchero nella foresta o di una nonna che esce sana e salva dalla pancia di un lupo. È perché la loro funzione è prepararci ad affrontare ogni tipo di sorpresa, all’assurdo della vita. Aspettati l’inaspettato. E, magari, impara ad ascoltare i tuoi sogni».
Le più antiche storie dell’umanità sono storie di ragazzi scritte per altri ragazzi (anche perché pochi di loro superavano i vent’anni). Sono ancora le storie più importanti?
«Se chiedi a un adulto di raccontarti una storia significativa, molto probabilmente ti risponderà con qualcosa che ha letto durante l’adolescenza, l’età in cui si disegna la mappa della nostra sensibilità, si piazzano cose che risuoneranno nel futuro e guideranno la nostra immaginazione. Le buone storie sono quelle che rispettano l’intelligenza dei bambini, fatta più di domande che di risposte, senza messaggi didattici. Sono storie dove si danno loro strumenti per pensare, si arma la loro indipendenza e senso critico, si è dannatamente onesti su quello che non si sa del mondo e si ride, ci si diverte, si sa essere stupidi e seri al tempo stesso».
Secondo te perché molta letteratura «alta» sospetta di ciò che fa ridere?
«Credo abbia a che fare con il desiderio di separare l’arte dall’intrattenimento, rischiando così di perdere il quadro generale, la reale complessità del lavoro creativo e della natura umana. Le categorie creano utili divisioni, ma isolano anche le cose tra loro, come ad esempio l’umorismo dalla filosofia, il divertimento dalla compostezza, mentre l’arte mescola tutto, è una forma di gioco, e di saper far credere».
Anche le illustrazioni?
«Le illustrazioni portano emozioni che non possono essere spiegate. Non è un caso se molti regimi hanno regole stringenti su cosa può essere disegnato e cosa no. I disegni sono più sottili e suscettibili di interpretazioni. Hanno avuto un ruolo dominante nella nostra storia, pensa ai fregi greci delle battaglie, le vetrate delle cattedrali, i calendari maya, i geroglifici egizi, le immagini sadiche dell’Inferno di Giorgio Vasari o l’allegoria di Lorenzetti del Buono e del Cattivo Governo. Contengono sempre un invito al ragionamento, sono zitte eppure sono potenti e ipnotiche, e ti lasciano il tempo per il dubbio».
Tutti i disegnatori amano disegnare mostri, tu invece «Creature». C’è una differenza?
«Se tu cerchi “Creature” su Google trovi mostri spaventosi e terribili, e questo secondo me ci racconta qualcosa di profondo su come spesso la nostra immaginazione faccia coincidere la stranezza con qualcosa di negativo. Io invece penso che sia qualcosa da osservare con curiosità e compassione, per saggiare la nostra capacità di empatia. Creature contiene l’idea di animali, anche immaginari, senza il giudizio di buono o cattivo».
Secondo te perché siamo sempre noi a cercare gli esseri fantastici, e non viceversa?
«In ogni caso, possiamo prepararci. Ah, quanto avrei voluto incontrare una volta un alieno come E.T.! In una delle mie storie, Eric (Templar, 2010), una famiglia accoglie con grande normalità uno studente straniero, che però è alto poche spanne e sembra una foglia scura. Il nostro desiderio di accogliere ospiti del tutto sfidanti è un aspetto elevato del nostro spirito, qualcosa di buono, che ha consentito all’umanità di fiorire in comunità complesse e diverse tra loro».
Nelle tue illustrazioni c’è spesso un «intruso», inquietante o fuori scala. Quale è la sua funzione?
«Mi piace osservare come reagiscono le persone quando se ne accorgono. Gli scimpanzé imparano ad aver paura dei serpenti vedendo gli altri scimpanzé, e così facciamo noi, da bambini, mimando ciò che gli adulti pensano di conoscere. Mi piace quindi disegnare cose apparentemente spaventose a cui le persone reagiscono con grande calma. Nel disegno di un gigantesco passerotto che incombe sopra al mio quartiere di Melbourne c’è una signora che va tranquillamente in bici, suggerendoci che forse quello sia un essere benevolo (e anche le luci contribuiscono a creare una certa emozione non convenzionale). Questo non significa rimuovere la paura, ma sottolineare l’incertezza, il senso di instabilità, una valutazione che però va pesata di volta in volta e non decisa a priori».
Anche i tuoi robot sono vecchi, malandati, scassati. Cosa ne pensi dell’idea che, in un futuro, ci terremo sempre compagnia con degli ingranaggi?
«I giapponesi chiamano mono no aware la nostalgia del divenire e la tristezza del pensare che tutto sarà perduto. Viviamo un’epoca di crisi ecologica e di un’incompetenza politica che rasenta la pazzia, con l’idea che tutto sia già successo in altri tempi o da qualche altra parte, un po’ come in Star Wars e nella Terra di Mezzo, che non a caso sono universi che ci piacciono tanto. Penso che i robot e le intelligenze artificiali saranno una parte fondamentale di ciò che ci aspetta».
E l’arte?
«Penso che sia una forma di meditazione, di capacità di essere attenti. Curiosamente, spesso non sono molto motivato a disegnare o dipingere, lo faccio più per senso del dovere. Ma, quando inizio, e mi prendo un momento per guardare davvero le cose, a pensare a come potrebbero davvero essere rappresentate, la mia mente scava più a fondo, e a un certo punto un albero non è più solo un albero, un cane non è più solo un cane, un edificio non è più solo un edificio: diventano unici, senza nome, oggetti che posso re-immaginare o far crescere come potrebbe fare un ragazzino. Mi auguro spesso l’arrivo del momento in cui vedo qualcosa la prima volta, o in un modo diverso. Penso che questo sia il senso dell’arte, sia per l’artista che per il pubblico: ricordarci che c’è sempre un altro modo di vedere le cose, di conoscerle. Il mondo non è sempre “solo così”».
Se esistesse da qualche parte una biblioteca che colleziona unicamente l’ultima copia esistente di libro, quale titolo andresti a prendere a prestito?
«Gosh! Questa sì che è una domanda. Forse qualcosa da leggere ai miei figli, o che potrebbe aiutare a spiegare cosa fare quando tutta la letteratura è finita. E, sai che forse è una buona idea per un libro illustrato?».