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 2022  dicembre 16 Venerdì calendario

Cultura in carcere

Un tempo le madri ammonivano i figli discoli: «Studia, se no finirai in carcere»; ora l’ammonimento ai discoli cresciuti sembra diventato «non studiare, se no resterai in carcere…». Così si esprime una ordinanza di un tribunale di sorveglianza durante il lockdown nel 2020: gli studi universitari, la laurea e un successivo master in carcere possono essere fattori potenzialmente pericolosi in grado di affermare la capacità criminale della persona detenuta.
Quell’ordinanza è stata inviata alla Corte europea dei diritti dell’uomo: non per la decisione che respinge le richieste di un detenuto di differimento della pena di detenzione domiciliare; ma per lo sconcertante e altrettanto inutile attacco – nella motivazione – al diritto del condannato allo studio. Un diritto che discende dal dovere costituzionale per la pena di tendere alla rieducazione, secondo l’articolo 27 della Costituzione.
L’accesso all’istruzione era considerato sin dal primo regolamento del carcere nel 1891 un obbligo e/o un premio. Venne confermato nel «Nuovo Regolamento» del 1931, se pure nell’ottica delle «tre medicine»: religione, lavoro, istruzione, funzionali alla finalità emendativa, afflittiva e intimidatoria del regime carcerario fascista.
Istruzione e cultura carceraria sono dal 1948 fondamentali nella concezione polifunzionale della pena delineata dall’articolo 27 della Costituzione in sinergia con il divieto di trattamento del condannato contrario al senso di umanità.
Nella concezione liberale dei costituenti è superata la visione di una pena e di un carcere soltanto o prevalentemente retributivi (male per male); rivolti alla prevenzione (le sentenze «esemplari» che puniscono uno per educare gli altri); «negoziabili» con il risarcimento alla vittima (doveroso) e/o con il patteggiamento sull’ammissione della propria colpevolezza (molte volte strumentale anziché espressione di ravvedimento). È ancora lungo il percorso iniziato verso una giustizia «riparativa» che responsabilizzi l’autore del reato verso la vittima.
L’articolo 27 della Costituzione riassume le indicazioni fondamentali degli articoli 2 e 3. Il primo riconosce i diritti fondamentali a tutti, compresi i «diversi» per le più svariate ragioni, sia come singoli, sia nelle formazioni sociali – fra cui il carcere – in cui si svolge la loro personalità. Il secondo riconosce non solo l’eguaglianza formale dinnanzi alla legge, ma anche e soprattutto la pari dignità sociale, fondamento della convivenza e della comunità, attraverso la solidarietà.
Pari dignità sociale per tutti: anche per i diversi; anche per gli stranieri, che l’articolo 10 della Costituzione considera pari ai cittadini per i diritti fondamentali; anche per i detenuti. Spetta alla Repubblica rimuovere gli ostacoli di fatto (ma ora sempre più anche di diritto) che limitano libertà e eguaglianza, cioè la dignità.
Questi «principi fondamentali» costituiscono le radici dei diritti – e dei doveri di solidarietà – in cui si articola e si sviluppa la Costituzione nel definire i rapporti civili, etico-sociali, economici e politici in cui si realizza la convivenza.
Ad essi si è aggiunta recentemente la modifica dell’articolo 9. Il trittico da esso previsto tra passato (la memoria) e futuro ( il progetto espresso dal paesaggio) – uniti dallo sviluppo della cultura e della ricerca – è stato arricchito dal riferimento esplicito all’ambiente, all’ecosistema, alla biodiversità, all’interesse delle generazioni future.
È una novità importante anche per il carcere. La biodiversità va scomparendo rapidamente per le specie vegetali ed animali; così anche la biodiversità della specie umana, che si esprime soprattutto nella sua cultura; e che viene ora contestata dalla cancel culture. Quest’ultima non può e non deve mancare in una delle formazioni sociali più difficili da gestire con equilibrio per lo svolgimento della personalità umana: il carcere.
Tre componenti sono essenziali e ineliminabili nello svolgimento della personalità: le relazioni con gli altri, la dimensione spaziale e quella temporale. Sono compresse, quando non vengono distrutte dal regime carcerario di diritto e soprattutto di fatto, nonostante gli sforzi della giurisprudenza costituzionale e ordinaria e la buona volontà degli operatori, non sempre recepiti tardi e male dal legislatore e dall’amministrazione. È difficile salvaguardare quelli che – con un’espressione infelice – la Corte costituzionale ha definito «residui di libertà» compatibili con la privazione della libertà personale come pena.
In passato il carcere era segnato essenzialmente dalla impermeabilità all’esterno, dal centralismo burocratico, soprattutto dalla violenza fra i detenuti e in parte del personale di custodia. La violenza è cresciuta quanto meno nella percezione da parte dei responsabili del sistema; ad essa si sono aggiunti il sovraffollamento e il degrado delle strutture, anche di molte fra quelle più recenti.
Non occorre ricordare la frequenza degli episodi di violenza, di denunzie e di indagini per vere e proprie torture nelle vicende di Santa Maria Capua Vetere, di Torino, di Ivrea, per citare talune delle più note e recenti; le condizioni di degrado di troppi carceri; o ricordare le disastrate condizioni sanitarie di essi.
La pandemia e il lockdown hanno esasperato le diseguaglianze fra chi stava fuori (sanzionando il mancato rispetto del «distanziamento sociale») e chi stava dentro (costretto ad una convivenza che facilitava il contagio, in condizioni di sovraffollamento e di precarietà igienico-sanitaria). Hanno ridotto ulteriormente le già difficili occasioni di rapporti familiari e affettivi, sino alla affermazione che l’isolamento del 41bis era la miglior garanzia di immunità al contagio. Hanno spinto alla generalizzazione e alla prevalenza delle relazioni online.
Parlare di dimensione spaziale reale e non soltanto virtuale (come i famosi occhiali del metaverso) è difficile in una realtà carceraria dominata dal sovraffollamento, dai letti a castello di tre livelli, dal dubbio giuridico (discusso in Cassazione) se il water e le suppellettili delle «camere di pernottamento» siamo compresi o esclusi dai fatidici tre metri quadrati dello «spazio regolamentare» pro capite.
Altrettanto surreale è la dimensione spaziale di carceri isolate al centro delle città o in luoghi desolati: in entrambi i casi con poche possibilità di collegamento e di scambio con il territorio e il suo tessuto sociale.
Parlare di dimensione temporale, di passato e di futuro, è egualmente difficile di fronte a un ergastolo ostativo il cui segno distintivo è il «fine pena mai»: con l’unica eccezione di una collaborazione «coatta» con l’autorità o di una prova impossibile del proprio ravvedimento. O parlarne di fronte al vuoto trascorrere di giornate senza lavoro, magari con il ritorno alla chiusura delle celle e con la prospettiva di un futuro che in realtà non esiste.
Per questo crescono i dubbi sulla costituzionalità di una pena che continuiamo non solo nell’opinione pubblica a ritenere l’unica possibile per garantire la sicurezza della società: educare alla libertà attraverso la privazione della libertà.
È un’opinione smentita dai fatti: il 70% delle recidive è rappresentato da persone che hanno scontato la pena in carcere, rispetto al 30% di coloro che hanno usufruito di misure alternative.
L’ordinamento penitenziario del 1975, la legge del 1986 sulle misure alternative, il regolamento del 2000 hanno segnato dei passi significativi. Ma l’equilibrio fra dignità, libertà e sicurezza in questo campo resta problematico.
L’ordinanza da cui ho preso lo spunto è il sintomo preoccupante di una situazione in cui si va generalizzando l’uso del diritto penale in generale e il ricorso in esso alla pena del carcere (minacciata e/o eseguita) non come extrema ratio, ma come strumento ordinario per risolvere (o pretendere di farlo) i problemi e le paure della collettività.
In questa prospettiva si intensificano i segnali di allarme. Sono la proposta di modificare l’articolo 27 della Costituzione, subordinando la rieducazione alla sicurezza e alla logica soltanto retributiva della pena; la invocazione di «pene esemplari» e quella di «buttare la chiave». Vi è la teorizzazione inaccettabile del «garantismo» nel processo e del «giustizialismo» nella pena, confondendo la necessaria certezza di essa con la sua durezza ed «esemplarità».
Vi è infine, dulcis in fundo, la decisione del Parlamento di far tornare in carcere i 700 detenuti che dal 2020 scontavano ai domiciliari il residuo di pena inferiore ai 18 mesi per limitare la diffusione del contagio del Covid, in un sistema penitenziario tuttora sovraffollato.
Per questo penso che la cultura nel carcere sia essenziale. Non so se con essa si possa mangiare (dipende in quale modo), come dubitava un ministro; so però per certo che con essa si può sopravvivere e continuare a sperare, in un carcere che ha registrato in quest’anno il triste primato di 80 suicidi fra i detenuti e nel quale si continua a morire per la perdita della speranza; un carcere che ha registrato altresì una crescita abnorme dei suicidi nel personale di custodia.
Penso che occorra lavorare perché la cultura entri sempre più nel mondo ristretto del carcere; e perché questo entri sempre di più nell’universo senza muri della cultura.
Penso, infine, che mentre lo Stato con la App18 si propone di offrire ai giovani uno stimolo per la cultura, forse sarebbe importante che un segnale analogo, con le ovvie e dovute differenze, venisse offerto al carcere e ai suoi abitanti. —