La Stampa, 15 dicembre 2022
Francesca Mannocchi vince il premio Scalfari
C’è sempre il rischio di scivolare nell’esercizio retorico ringraziando mentre si riceve un premio. Ricevendo questo riconoscimento, il Premio intitolato a Eugenio Scalfari alla sua prima edizione nell’anno della sua morte, evitare la retorica deve essere un mandato.
Non ho avuto la fortuna di conoscere Scalfari, soprattutto non ho avuto il privilegio di lavorare in una redazione da lui diretta. Nei miei anni di liceo, alla parola Scalfari associavo l’immagine della mia insegnante di Lettere al mattino con il giornale sotto il braccio. Leggere un quotidiano in classe era per lei la forma dell’educazione al confronto. Spesso, il lunedì mattina, andare a scuola significava leggere l’editoriale domenicale di Scalfari, riflettere insieme attorno a un tema, affrontare il confronto generando conflitto.
«Questo – diceva la mia professoressa alla classe intera, prima di passare a Pascoli, Machiavelli, Manzoni – questo fa di un individuo un cittadino: capire, affrontare il conflitto, generarlo se occorre». E poi aggiungeva che questo fa di chi ha una penna uno scrittore, di chi ha una pagina un giornalista: rendere la semplicità un alleato, la fermezza il sinonimo di credibilità e non partigianeria. Che scrivere non dovesse diventare un esercizio di stile, una manifestazione superba di conoscenze acquisite l’ho appreso così. Sulle pagine di un quotidiano prima che sui libri di scuola.
Quello che significava lavorare con lui, invece, l’ho appreso dalle parole che mi ha consegnato chi ha conosciuto il suo esempio. Primi tra tutti i due direttori dei giornali che hanno accolto i miei racconti in questi anni. Marco Damilano a L’Espresso, prima, e oggi il direttore Massimo Giannini sulle pagine de La Stampa. È da loro che ho appreso e sto apprendendo ogni giorno rigore e rispetto per il lettore.
Quando ho cominciato a collaborare con L’Espresso avevo per anni lavorato e scritto per la televisione. Un giorno inviai un reportage dalla Libia all’allora caporedattore Esteri Gigi Riva, le cui cronache dai Balcani avevo letto appassionatamente, con in tasca il sogno che sarei stata io, un giorno, la penna che avrebbe raccontato le guerre.
Ero a Tripoli, ero riuscita a ottenere gli accessi al fronte a cui lavoravo da tempo, a intervistare i protagonisti della guerra civile che stava animando i giorni e le notti della capitale libica. Mentre inviavo il pezzo a Riva pensai: sarà soddisfatto. Doveva esserlo.
Il giorno dopo Riva mi telefonò e mi disse: «Ci sono le notizie e questo è bene. Ma non vedo niente, non riesco a essere dove tu sei stata. Non sento gli odori, non vedo i volti delle persone. Non mi hai portato con te. Riscrivilo».
Non l’avevo portato lì, dovevo ricominciare da capo. C’erano le notizie, mi aveva detto, ma non lo spazio, c’erano le notizie, ma non le persone, le notizie erano dunque senz’anima.
Quello che il suo rimprovero, la sua correzione mi stava dicendo, senza dirlo, è che avevo scritto per me e non al lettore.
Così da allora quando mi siedo di fronte al computer mi chiedo se ci sia un chiodo cui le mie parole possano essere appese per portare il lettore dove io sono stata. Me lo domando se devo descrivere un campo profughi e i dettagli che ho appuntato sul taccuino raccontano una realtà che per gli altri non è mai stata esperienza, né mai lo diventerà, se devo descrivere il fango di una trincea al gelo dell’inverno dell’est Europa, o i volti delle persone migranti costrette dietro le grate dei centri di detenzione libici finanziati dai nostri governi.
Come faccio a portare l’altro dove io sono stata?
Quale senso devo stimolare affinché l’altro, il lettore, veda ciò che io ho visto?
A quale chiodo posso appendere, così che resti sempre visibile, l’immagine dei piedi di un bambino nel fango, in una tenda, d’inverno, in Europa?
Queste domande talvolta si sono tradotte in descrizioni, talvolta in fallimenti, in cui restavo testimone di qualcosa che avevo visto e il mio altro, il lettore, restava distante.
Con il tempo, ho fatto mie le lezioni che gli altri mi trasmettevano, le loro correzioni, la loro severità, e ho capito che la regola prima, per un giornalista, è scrivere non per il lettore ma al lettore, che la lingua di chi scrive deve accostarsi a quella di chi legge, che il lettore va interrogato non assecondato, che la pagina deve essere un luogo ospitale ma non un luogo comodo, e che non c’è contraddizione in questo. La pagina deve essere un luogo ospitale affinché il lettore arrivi dove non è e non è stato, ma anche un luogo in cui si senta straniero perché la scrittura ha senso solo se raggiunge uno spazio di interrogazioni, di dilemmi, in cui il lettore entri in colloquio con le convinzioni e la radicalità di chi ha scritto, e le affronti perché sente con quelle righe affinità, ovvero divergenza.
Un luogo dunque accogliente ma scomodo, in cui non si ha paura di rivendicare una posizione o di cambiare idea.
È leggendo Scalfari da ragazza che ho cominciato a capire che neutralità è inganno, che più si è fermi e rigorosi e più il lettore ci riconoscerà il valore principale della nostra professione, cioè la credibilità. Che non tutti devono amarci, ma tutti leggendoci devono poter avere fiducia delle nostre parole, della cura che abbiamo messo nel descrivere ciò che abbiamo visto, ciò che abbiamo imparato, i dubbi che ci animano. Leggendo Scalfari ho imparato che essere oggettivi significa non nascondere il proprio punto di vista ma precisamente il suo contrario: renderlo così tanto chiaro, esprimerlo con tale limpidezza, da far capire a chi legge quale obiettivo si è scelto per fotografare la realtà. Solo così, esponendosi senza infingimenti, si può essere credibili per chi ci è alleato e per chi ci è avversario.
Solo così si può smettere di usare la parola nemico, che non serve né in pace né in guerra.
Nell’ultimo editoriale scritto lo scorso sei marzo, a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, Scalfari scrive: «L’Europa ha una ferita nel cuore, si chiama Russia, che ha a sua volta un’altra ferita ancora più grande, si chiama Ucraina. L’indicibile orrore delle immagini che arrivano in queste ore da Kiev e dalle città distrutte, mi lasciano sgomento. Non vogliamo che queste tragedie cadano nell’oblio. Noi desideriamo dar voce a quanti soffrono, a quelli senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c’è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita».
Dare voce a quelli senza voce e senza ascolto. Insegnamento e insieme monito, richiesta e insieme eredità di un Maestro che ci ha insegnato che essere comunità significa darsi mutualmente aiuto, ma anche mutualmente severità. Che ha chiesto ai giornalisti la virtù della chiarezza, e ha chiesto ai lettori quella dell’impegno civile. —