la Repubblica, 15 dicembre 2022
Lo scivolone di Conte
Una decina di giorni fa, a Napoli, Giuseppe Conte ha evocato possibili “disordini sociali” a difesa del reddito di cittadinanza, messo a rischio dalle modificazioni annunciate dal governo. Dopodiché, anziché invitare alla calma e al rispetto della legge, ha spiegato che la funzione del Movimento Cinque Stelle è “evitare che le difficoltà economiche sfocino in rabbia, disperazione e gesti inconsulti”.
Credo non occorra aver letto Paul Watzlawick e i suoi studi su comunicazione e meta-comunicazione per rendersi conto che, se il significato letterale del messaggio è che i Cinque Stelle desiderano contenere la rabbia della gente, il senso del meta-messaggio è che la rabbia potrebbe esplodere, ed è giustificata dalle circostanze. È un classico: il messaggio dice una cosa, il meta-messaggio dice altro, spesso il contrario.
Si potrebbe supporre che quello di Conte sia stato un infortunio, uno scivolone, una voce del sen fuggita, e che in realtà il leader Cinque Stelle non stia affatto cercando di scaldare gli animi. Ma i precedenti lo escludono.
Durante la campagna elettorale (17 settembre), circa un mese e mezzo prima delle dichiarazioni sui “disordini sociali”, Conte aveva lanciato la sfida: “Renzi venga senza scorta a parlare con i cittadini, a parlare ed esporre le sue idee. Dica che in Italia non serve un sistema di protezione sociale. Venga a dirlo e non si nasconda”.
Messaggio: Renzi venga a esporre le sue idee.
Meta-messaggio: se viene senza scorta rischia il linciaggio. Dunque di nuovo evocazione di disordini e violenze, con il brutto annesso di attribuire a Renzi una cosa che Renzi non ha mai detto (“in Italia non serve un sistema di protezione sociale”).
Ma andiamo ancora indietro nel tempo. Dieci giorni prima (7 settembre) Conte dichiara: “Meloni togliendo il reddito di cittadinanza vuole la guerra civile”.
Un’affermazione incendiaria, motivata dalla piùretorica e demagogica argomentazione possibile: “Lei guadagna da oltre 20 anni 500 euro al giorno con i soldi dei cittadini e vuole togliere 500 euro al mese alle persone in difficoltà facendo la guerra ai poveri”.
E altri dieci giorni addietro (28 agosto), rispondeva “assolutamente sì” a chi gli chiedeva se, con l’abolizione del reddito di cittadinanza, temeva “una rivolta sociale”. Alla luce di questo stile comunicativo, non stupisce che – per caratterizzare la leadership di Conte – siano stati evocati concetti come populismo, qualunquismo, demagogia. Meno comprensibile, almeno ai miei occhi, è che si siano scomodati paragoni con Peron, Che Guevara, Lula, Berlinguer, tutti personaggi discutibilissimi, ma di tutt’altro spessore e carisma.
Se proprio si vuole descrivere l’approccio politico di Conte, pare più appropriato un paragone con l’irresponsabilità economica (e l’anti – industrialismo) che caratterizzò la lunga stagione che va dalla fine del miracolo economico (1964) allo scoppio di Mani Pulite (1992). È in quella stagione che, a dispetto di quanti provarono a fermare la corsa verso il disastro, prese forma l’Italia con cui oggi facciamo i conti. Un’Italia incapace di attuare le riforme fondamentali, di frenare il debito pubblico, e soprattutto di rinunciare all’assistenzialismo, il mostro che – attraverso mille canali e diramazioni – ha moltiplicato sprechi e inefficienze, soffocato la crescita, e drammaticamente ristretto le possibilità di azione di qualsiasi governo.
Oggi quell’approccio, fondamentalmente irresponsabile, risorge in forme più o meno rinnovate: esortazioni allo scostamento di bilancio, freno alle scelte energetiche e alle grandi opere, difesa a oltranza di strumenti dispendiosi e inefficienti (superbonus, reddito di cittadinanza). È la vecchia Italia, con un’aggravante stilistica: né Moro, né Craxi, né Spadolini avrebbero disertato la prima della Scala per farsi riprendere dalle tv seduti fra i poveri o i disoccupati.