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 2022  dicembre 15 Giovedì calendario

Intervista a Daniele Vecchione, drogato di sport

Se Napoleone fu il Grande Còrso, lui, con uno spostamento di accento, è il Córso Perpetuo. Questo fa di mestiere Daniele Vecchioni: corre. La galoppata del Bonaparte toccò l’Egitto, la Palestina, la Siria e s’interruppe in Bielorussia, sulle rive della Beresina. A 37 anni il giovanotto cresciuto a Civitanova Marche e oggi residente per amore a Caldogno, il paese vicentino di Roberto Baggio, ha già conquistato i cinque continenti e non accenna a fermarsi. Tant’è che mi obbliga alla prima intervista in piedi (sempre meglio che in ginocchio), nel senso che l’ha rilasciata rimanendo dall’inizio alla fine nella sua posizione abituale. Vecchioni, tre lauree, era un manager nella direzione aziendale di Prysmian, la ex Pirelli cavi, con un eccellente stipendio. In precedenza aveva lavorato nella multinazionale Procter & Gamble. «Ma ero infelice e demoralizzato». Così nel 2011 si è licenziato e con la moglie Paola Dalla Vecchia, laurea in ingegneria gestionale e master in business administration, ha deciso di puntare sulla passione coltivata dall’età di 7 anni. Ha fondato Correre naturale, una srl che oggi impiega 11 persone e offre agli aspiranti maratoneti la running school e il training online. Il suo verbo lo espone in Corsa. La medicina perfetta (Gribaudo), manuale in cui celebra «la pratica più antica, potente e naturale per migliorare la forma fisica, eliminare lo stress, diventare la miglior versione di te», cioè, nel caso dell’autore (1,87 di statura e 78 chili di peso), il testimonial di sé stesso: corpo scultoreo, bicipiti da gladiatore, addome a carapace di tartaruga.
Il «Corriere» è il suo giornale ideale.
«La corsa è la mia compagna di vita. Ricordo la prima che feci da bambino nel parco delle terme di Castrocaro, insieme con mio padre Giancarlo, che a 84 anni ancora si allena tutti i giorni».
A Castrocaro si diventava cantanti.
«È mia moglie che canta e suona il pianoforte. Ed è lei che mi manda fuori a correre. Mia figlia Iris, 4 anni, promette bene. Vedremo Deva, in sanscrito significa “celestiale”, nata un mese fa».
Mi mette in difficoltà. Per me la poltrona è un indumento.
«È un guaio che la accomuna a chi crede di correre bene. In realtà la maggioranza non sa né correre né camminare. Serve uno schema motorio. Il nostro è uno stile di vita alieno. Stiamo seduti 10-12 ore al giorno fin dalle elementari. Zero mobilità articolare delle caviglie».
Invece lei, fin dall’infanzia, a sudare.
«Ogni domenica marce non competitive con mio padre. Ho anche giocato a calcio nella Vigor Sma. Centrocampista».
Come fa a ricavarci uno stipendio?
«Quando diedi le dimissioni dalla Prysmian, suoceri, colleghi e amici mi diedero del pazzo. Ma io intuivo che c’era uno spazio immenso. E sa perché? Correndo mi facevo male di continuo: tendiniti di Achille, fasciti, sindromi rotulee. Serviva una scuola. L’ho creata».
Ho chiesto a Claudio Zorzi, primario di ortopedia all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, che ha operato la campionessa Sofia Goggia, se lo sport fa bene. Risposta: «Sì, agli ortopedici».
«Sono totalmente d’accordo».
«Farà bene all’apparato cardiocircolatorio e respiratorio, ma a quello muscolo-scheletrico no di certo», ha aggiunto.
«L’80 per cento dei corridori ogni anno s’infortuna, lo attesta una ricerca svolta ad Harvard. Un’ora di corsa equivale a 10.200 passi, circa 170 al minuto. A ogni passo gestiamo tre volte il nostro peso corporeo. Perciò un soggetto di 70 chili ne sopporta 210 a ogni passo. A fine corsa ciascuna gamba avrà dovuto reggere un carico equivalente a 1.071.000 chili. Senza la giusta tecnica, non puoi ammortizzare questo impatto».
Perché l’uomo corre e invece lo scimpanzé, suo stretto parente, non lo fa?
«Perché asseconda la strategia con cui la natura ci ha fatto scendere dagli alberi. L’alluce, quattro volte più grande e resistente delle altre dita, è l’àncora che ci permette di stare in piedi. Senza, non potremmo né correre, né camminare. Nel mio metodo è fondamentale. Nell’antichità, ai re spodestati e agli schiavi mozzavano l’alluce. Alle neonate cinesi fasciavano stretti i piedi affinché crescesse all’ingiù. Ciò le condannava, da donne, all’impossibilità di muoversi».
Eravamo partiti dalla sua azienda.
«La testai con un seminario di studi gratuito nello stadio di Civitanova Marche: si presentarono in 25. Dopo quattro mesi, arrivarono le prime richieste di workshop. In epoca pre-Covid, radunavo fino a 100 persone in sala, pronte a pagare 147 euro. Ora lo faccio da remoto».
Saranno spuntati i concorrenti, però.
«Qualche imitatore. Ma è finito male».
Che significa Correre naturale? Non sapevo che esistesse la corsa innaturale.
«Bellissima domanda. In teoria sarebbe naturale, ma in pratica non lo è. Quindi occorre impararlo, rieducarsi».
Dove ha corso?
«Ovunque. In Australia, dove mi sono trattenuto un biennio per motivi di studio. Poi nell’anno sabbatico con lo zaino in spalla ho girato il mondo: Nuova Zelanda, Cambogia, Thailandia, Egitto, Islanda, Canada, Stati Uniti, Messico. Ho vissuto tra gli San, boscimani della Namibia, che stanno lì da 22.000 anni: i nostri progenitori. Volevo capire come corrono, mangiano, dormono, si nutrono».
E che cosa ha scoperto?
«Si coricano appena dopo il tramonto, nel sonno tengono la bocca chiusa e respirano solo con il naso. Danno la caccia allo springbok senza armi».
Quindi come fanno a catturarlo?
«Sono abilissimi a tracciarne le orme, per loro la savana è una tavolozza. Lo inseguono di corsa, divisi in gruppi. Poiché questa specie di antilope non suda, alla fine collassa per terra».
Sgambetta ovunque. In Italia no?
«Per tre anni l’ho attraversata da mare a mare: da Riccione a Livorno, da Civitanova Marche a Civitavecchia, da Camaiore a Cervia. Quattro giorni di corsa, tappe di 70-80 chilometri, solo 1 euro in tasca. Format “Niente scuse”, l’ho chiamato».
Conosce i Cammini di Santiago, La Plata, Sant’Olav, St. Cuthbert?
«Sì, e ho in animo di farli. È che da 10 anni vivo in modalità rincorsa. Devo prendermi del tempo per riflettere».
Il suo record qual è?
Spesso mi facevo male: ho creato
una scuola. È l’alluce che ci tiene
in piedi. Ho imparato dagli San
della Namibia, nostri progenitori
«Non saprei, non l’ho mai cercato. Posso correre per più di cinque ore».
A quale velocità massima?
(Barcolla). «In chilometri orari? E chi lo sa? Diciamo 178 passi al minuto. Ogni passo consideri 1,40 metri».
Un attimo, uso la calcolatrice. Fanno 15 chilometri orari.
«Verifico». (Controlla il cronografo al polso). «Nella corsa di oggi, 1 chilometro in 3 minuti e 50. Ho coperto 10 chilometri. Ma non era la mia velocità massima».
Dov’è andato ad allenarsi?
«Qui a Caldogno, sulla Camminata delle risorgive e lungo il bacino di laminazione, 5 chilometri di anello sterrato pianeggiante. Pare di stare in Kenya».
Non nota in giro l’idolatria del corpo?
«Eccome. Il corpo è una tuta spaziale, però sono troppi a non prendersene cura. Io non sono il mio fisico e tuttavia mi aiuta a essere un papà più forte. Serve la manutenzione. L’ossessione estetica non c’entra. Avere gli addominali scolpiti non significa essere in forma. Anzi, chi li ostenta di solito non sta bene».
Gianluca Vacchi, influencer, è malato?
«Non guardo né lui né i suoi balli con i domestici. Ho un’altra filosofia di vita».
Esistono biotipi inadatti alla corsa?
«No. È una nostra forma di locomozione, quindi fa parte del Dna umano. Il cavallo non trotta per conservarsi sano?».
Quali doti servono per correre?
«Pazienza, umiltà, costanza. Le stesse che occorrono nella vita. Infatti la corsa è una grande metafora dell’esistenza».
Che cosa accade al corpo nella corsa?
«Una magia, a livello fisiologico e meccanico, in muscoli, tendini, legamenti, articolazioni. Lo sa che il tendine di Achille, il più forte e grosso, potrebbe sostenere il peso di una Ford Fiesta?».
Lei paragona la corsa alla droga.
«Sì, dà dipendenza, però positiva. Produce endorfine ed endocannabinoidi».
È come fumarsi la cannabis.
«Nel 1974 lo psichiatra William Glasser fece compilare un questionario a circa 700 podisti e ne dedusse che il 75 per cento di loro, abituato da un anno a correre sei volte a settimana per almeno un’ora, era a tutti gli effetti dipendente dall’attività sportiva. In gergo si chiama runner’s high, sballo del corridore. È la stessa reazione chimica che avviene in animali come il lupo e il cavallo, ma non nei felini, che scattano e non corrono. Una richiesta istintiva, paragonabile al piacere del coito di cui si serve la natura per la continuazione della specie».
Ma correre è faticoso.
«Non dovrebbe esserlo. È un falso mito. Io corro per ore senza stancarmi».
Quei disperati ridotti a stracci bagnati che vediamo per strada sbagliano tutto?
«Si stanno danneggiando. A loro la corsa arreca un maleficio, non un beneficio. Non dimagriscono di un grammo».
Da quanto tempo non va dal medico?
(Ci pensa). «Sei anni fa mi sono fatto controllare per la tiroidite di Hashimoto, peraltro priva di sintomi. A Ferragosto del 2021 ero in bici nelle Marche, un’auto mi ha investito. Un volo di 7 metri. Me la sono cavata con la frattura del setto nasale e qualche escoriazione».
Il suo rapporto con i farmaci?
«Inesistente. Sono guarito per tre volte dal Covid senza prendere nulla».
Le capita mai d’immedesimarsi nella condizione di chi non può camminare?
«Spesso. Ecco perché considero irrispettoso rinunciare al dono di correre».
E se toccasse a lei finire in carrozzella?
«Non l’ho messo in bilancio. Non ci voglio neppure pensare. Già un dolore al ginocchio mi manda in depressione».