Anteprima, 3 novembre 2022
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Biografia di Franco Tatò
Franco Tatò (1932-2022). Manager. Già amministratore delegato di Deutsche Olivetti, Mannesmann-Kienzle, Arnoldo Mondadori Editore, Triumph Adler AG, Fininvest, Enel e dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. E poi ex vicepresidente del colosso metalmeccanico Berco, ex presidente del consiglio di amministrazione di Parmalat (2011-2014): «Non ho mai lasciato un’azienda con un bilancio peggiore di quello che avevo trovato». Giuseppe Turani: «Gli elementi-base della sua biografia sono abbastanza straordinari. Quello che viene considerato uno dei manager più bravi d’Italia è in realtà un laureato in Filosofia presso il collegio universitario Ghislieri di Pavia. Lo stesso, peraltro, del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, suo grande nemico e artefice della fine della sua carriera. Dopo l’università continuerà a occuparsi di filosofia, ma solo a titolo personale, come persona colta, alla sera dopo qualche lunga giornata come manager o sul Concorde, quando per un certo tempo fa il pendolare fra l’Italia e la Olivetti America. La sorte lo porterà poi a essere uno dei manager a cui Silvio Berlusconi deve di più. E a essere uno dei primi manager la cui carriera viene troncata proprio dal governo di Berlusconi, e questo nonostante il suo lavoro all’Enel sia stato impeccabile e abbia portato a risultati di bilancio, e di crescita, assolutamente straordinari. Unico neo in un personaggio del genere: un carattere non facile (Kaiser Tatò o Kaiser Franz sono i due soprannomi che si porta dietro), un’abitudine a fare solo di testa propria e una certa vocazione a non curarsi dell’opinione della gente. A un certo punto, quando è già all’Enel, si innamora di una bellissima ragazza molto più giovane di lui, Sonia Raule (che lo renderà per la terza volta padre, a settant’anni). E non la nasconde, va a vivere con lei e la presenta ovunque come la sua compagna. Un uomo così è ovvio che, alla fine, mette insieme pochi amici». Morto a San Giovanni Rotondo, in Puglia, dove si sarebbe dovuto sottoporre a un intervento al cuore.
«Quando da Lodi la mia famiglia si trasferì a Torino, alla fine degli anni Trenta, andavo a Porta Palazzo a giocare a “paligia”. Allora non si avevano giocattoli, i bambini giocavano per strada. Disegnavamo un cerchio per terra e ci mettevamo dentro tutti i nostri tesori, soprattutto figurine di calciatori. Poi vi lanciavamo a turno un piattino di metallo. Tutto ciò che usciva dal cerchio veniva “guadagnato” da chi tirava: una forma di ridistribuzione del reddito. A me piaceva molto, soprattutto perché mi permetteva di imparare il piemontese. A scuola un compagno mi aveva apostrofato in dialetto. Io, non capendo, gli avevo risposto in milanese. Così lui mi bollò come “terùn”. Poi vennero i bombardamenti e non potei più andare a giocare» [a Costanza Rizzacasa D’Orsogna, Panorama 2012].