10 novembre 2022
Tags : Luca Zingaretti
Biografia di Luca Zingaretti
Luca Zingaretti, nato a Roma l’11 novembre 1961 (61 anni). Attore. Produttore. «Che cosa vi siete lasciati lei e Montalbano? “Io a Montalbano ho lasciato i capelli, lui a me il senso della giustizia, le sue simpatiche antipatie, la sua integrità nel trattare i deboli e i potenti. Anche io gli ho dato tanto, soprattutto i miei difetti”» (Michela Tamburrino) • «Vengo da una famiglia della media borghesia romana. La nostra prima casa era in via della Magliana. Mia madre, donna estremamente vitale, lavorava all’Inail. […] Mio padre è stato funzionario alla Banca commerciale italiana. I miei si separarono quando avevo otto anni, ma da allora non è passato giorno in cui non si siano visti e telefonati almeno dodici volte. Si sono amati sempre, a debita distanza. Aquilino ed Emma hanno avuto tre figli: Luca, Nicola e Angela. Le sembrerà ridicolo, ma siamo stati e siamo una famiglia molto unita» (a Dario Cresto-Dina). «Luca Zingaretti, qual è il suo primo ricordo? “Il corridoio della nostra casa alla Magliana. Da lì all’Eur erano tutti prati. Ci avevano assicurato che sarebbero diventati piscine e campi da tennis”. Invece? “Crebbe la borgata. La considerai una buona notizia. Divenni un po’ un ragazzo di strada; e la strada – non è retorica – fu una scuola”. Scuola? “Impari a relazionarti con gli altri. In fondo siamo animali: la prima impressione è sempre legata all’aspetto, all’odore, al modo di porsi. Ancora adesso, pure nel luogo più pericoloso del mondo, mi sento relativamente tranquillo. Se poi c’è un pericolo vero, lo avverto un quarto d’ora prima”. Faceva a botte? “Bastava uno sguardo storto, o una lite per il pallone, ed era subito rissa. Ma con le mani: non c’erano coltelli o pistole, come adesso”. […] Una parte della sua famiglia è di origine ebraica. “Mia bisnonna Ester, la nonna di mia madre, fu portata via dal ghetto il 16 ottobre 1943. Qualcuno aveva dato l’allarme, lei era scappata, ma aveva lasciato a casa l’orologio. Tornò a prenderlo. I nazisti fecero irruzione e la mandarono ad Auschwitz. Morì durante il viaggio. Suo figlio, mio nonno Angelo, si salvò nascondendosi in convento. Il fratello, mio zio Ugo, grazie ai documenti falsi che gli procurò una rete di resistenti cattolici poté tenere aperto il suo negozio di antiquariato”» (Aldo Cazzullo). «Era una famiglia religiosa? “Come lo sono gli italiani. In modo superficiale. E noi assorbivamo il loro modo di pensare. Mia nonna ogni tanto ci portava in chiesa. Però, ora che ci penso, prima ho fatto le elementari dai preti, poi andavo all’oratorio: qualcosa ci doveva essere, o forse era solo, come diceva mio padre, un modo per non farmi andare nella scuola pubblica, allora sovraffollatissima. Alle medie ero in piazza Mastai, anche se abitavo alla Magliana”. Fu lì che iniziò a giocare a calcio. “Ero un grande appassionato fin da bambino. Sempre col pallone per strada. A 9-10 anni andavo al campo delle Tre Fontane. Il padre di un amico mi vide giocare in un torneo e mi suggerì di andare al San Paolo Ostiense: c’erano 20 squadre, pagavi una quota, ti facevi vedere a messa e ogni tanto partecipavi a una riunione col prete”. Insomma, una squadra di parrocchia. “Era divertente. Il parroco ti parlava un po’ di Cristo, ma non te la menava col pilotto. Non teneva sermoni”» (Susanna Nirenstein). «Lei faceva politica. “Nel Pdup: Partito di unità proletaria”. […] Suo fratello Nicola, di quattro anni più giovane, scelse invece la Fgci: Federazione giovanile comunista. “Lui aveva la pazienza necessaria a fare politica, che a me mancava. Fece tutta la trafila: segretario di sezione, di Roma, della provincia, nazionale. Poi entrò nel partito”» (Cazzullo). «“Erano anni diversi. Chi faceva la scuola media superiore si interessava di politica per forza. Il Movimento del ’77. Anni tosti, meravigliosi e anche molto brutti. Oltre al terrorismo arrivò la droga. E io ho visto molti amici fare scelte sbagliate in politica oppure andarsene per overdose”. A Roma tra rossi e neri si rimaneva spesso stesi per terra. “Be’, io ero a cento metri da Giorgiana Masi, che venne uccisa a Ponte Garibaldi il 12 maggio del ’77. […] A Roma c’era una atmosfera plumbea, ma i ragazzi pensavano di poter cambiare il mondo”» (Andrea Malaguti). «Fu un mio compagno di liceo (con lui recitavo nei saggi di fine anno) a dirmi: Luca, proviamo a dare l’esame all’Accademia. Ma dove andiamo? gli dicevo io. E invece fui ammesso. I primi ruoli in teatro, piccoli ma con autori come Ronconi, e nel mio cuore l’altro grande amore: il calcio. Ero stato mediano nel San Paolo Ostiense, e poi nel Rimini, e ci ero stato con slancio e passione… Alla fine, cambiare pelle, poter interpretare dieci, cento personaggi ha avuto più peso di un gol» (a Michela Urbano). «Gli anni dell’Accademia furono esaltanti: “C’era il sogno del futuro, del ‘saranno famosi’, un periodo bellissimo, ci si divertiva ma si studiava come pazzi. L’Accademia non aveva una lira, eravamo ospiti di una scuola, però come in tutti i momenti di crisi c’era un grande fervore, la gente veniva a insegnare gratis, lavoravamo otto ore al giorno, la sera avevamo una tesserina che ci permetteva di andare in tutti i teatri d’Italia, dopo si andava a mangiare e si discuteva ancora di teatro”. […] Degli insegnamenti gli è rimasto il rispetto per il lavoro – “La dignità dell’attore è nella consapevolezza di essere un narratore di storie, dunque un portatore di valori” – e la disciplina: “Se in pausa ti sedevi nel proscenio in costume, ti sgridavano: stavi mancando di rispetto all’abito. Quando ti spogli puoi sbragarti come ti pare, dicevano, ora stai in piedi”. […] “Camilleri insegnava regia televisiva in Accademia, e, poiché non c’erano soldi per affittare moviole e telecamere, lo faceva con i suoi racconti, con la sua capacità di illuminare le storie, anche le più banali. Ci incantava, e non era facile: eravamo una classe di figli di mignotta, ventenni esaltati, pieni di donne, ci sentivamo artisti. Andrea era brutto, ma tutte le ragazze ne erano innamorate per quanto era affascinante”» (Maria Pia Fusco). «“I primi soldi, li ho visti con uno spettacolo di Ronconi, la Santa Giovanna con Adriana Asti”. Che ruolo aveva? “Il boia. Ricordo ancora le battute. Un prete mi chiedeva: ‘La forca è pronta?’. E io: ‘Sì, signore’. ‘E la condannata l’ha vista?’. ‘Sì, signore’. Immobile su una scala”. Ha avuto dei maestri? “Sì. A parte Ronconi e la Asti, Peter Stein, Marisa Fabbri e Umberto Orsini. Stavo ore a guardarlo per capire come facesse a far scattare la risata o il moto di commozione nel pubblico”. Come faceva? “Usando perfettamente le pause e i tempi in scena”» (Vittorio Zincone). «Lavora a teatro con L. Ronconi e P. Stein prima di esordire nel cinema con Gli occhiali d’oro (1987) di G. Montaldo, in un piccolo ruolo, e quindi in Abissinia (1993) di F. Martinotti. Calvo, fisico da lottatore, si fa notare con il personaggio violento e brutale che interpreta ne Il branco (1994) di M. Risi e con quello più sfumato e conflittuale in Vite strozzate (1996) di R. Tognazzi. È anche in Tu ridi (1998) di P. e V. Taviani e L’anniversario (1999) di M. Orfini, sempre con una notevole presenza scenica e in ruoli di forte caratterizzazione» (Gianni Canova). «Come divenne Montalbano? “In una piccola libreria comprai un romanzo di Camilleri: era Il cane di terracotta. Scoprii questo personaggio strepitoso. Avrei comprato volentieri i diritti, ma non avevo né i soldi, né il nome. Per fortuna se li procurò un piccolo produttore, Carlo Degli Esposti. Dissi alla mia agente: anche se cercano un attore alto e biondo, voglio quella parte. Scelsero me”. Camilleri che disse? “Che avrei fatto un bel lavoro. Anche se lui aveva in mente un altro tipo di attore, tipo Pietro Germi quando fa il commissario Ingravallo”» (Cazzullo). A sceglierlo era stato Alberto Sironi (1940-2019), lo storico regista della serie. «“La mia terna finale era formata da Zingaretti, Massimo Popolizio ed Ennio Fantastichini. Fantastichini era il più somigliante al Montalbano letterario di Camilleri, ma non si presentò al casting. E Zingaretti fece un provino talmente straordinario…”. Ce lo racconti. “Portò il monologo finale di La voce del violino. Quattro pagine pazzesche”» (Alberto Sironi a Vittorio Zincone). Con l’episodio Il ladro di merendine, il 6 maggio 1999 «“iniziava una bellissima avventura su Rai 2 con un prodotto ‘poco televisivo’. Ritmo di narrazione alto, un tentativo che viaggiava sull’onda dei vecchi sceneggiati. Fu un trionfo da trasferimento su Rai 1”. Una galoppata continua che ha conosciuto solo un tentativo d’arresto. […] “Dissi di no a Montalbano nel 2006 per strategia. Meglio uscire tra gli applausi, mi dicevo, meglio 5 minuti prima che 5 dopo. Sbagliavo. Ho sentito la sua mancanza e me ne sono fregato, delle strategie, proprio come avrebbe fatto Salvo. Così ho avuto il privilegio di seguire un archetipo nel suo arco letterario completo”» (Tamburrino). «Al cinema è invece notevolissima la sua interpretazione di don Pino Puglisi, assassinato dalla mafia a Palermo il giorno del suo 56° compleanno, il 15 settembre 1993, nel film di R. Faenza Alla luce del sole (2005). Pur continuando a frequentare il piccolo schermo, diventa progressivamente figura di primo piano nel cinema italiano degli anni 2000, spesso interprete di personaggi non accomodanti: è il marito traditore che fugge gettando la moglie nello sconforto più assoluto ne I giorni dell’abbandono (2005) di Faenza, interprete del mediocre Non prendere impegni stasera (2006) di G.M. Tavarelli, spregiudicato banchiere in A casa nostra (2006) di F. Comencini, cuoco casanova in Tutte le donne della mia vita (2007) di S. Izzo e fascista paternalistico in Mio fratello è figlio unico (2007) di D. Luchetti. Nel 2008 affronta in Sanguepazzo di M.T. Giordana il controverso personaggio di O. Valenti, con una forte carica drammatica e luciferina» (Canova). «Ha indossato tante maschere in questi anni Luca Zingaretti. Quella del celebre commissario di polizia inventato dallo scrittore Andrea Camilleri, certo. Ma anche quelle eroiche, a modo loro, di don Pino Puglisi, di Paolo Borsellino e di Giorgio Perlasca. Dell’imprenditore illuminato Adriano Olivetti e […] dell’ambiguo direttore di una prigione, […] Bruno Testori, uomo con un’idea molto personale su cosa sia la giustizia» (Sara Sirtori). «Luca Zingaretti non l’avevamo mai visto così cattivo. Nella serie Il re, nuovo prison drama di Giuseppe Gagliardi (su Sky), […] l’attore prende una boccata di ossigeno da Montalbano per mettersi nei panni di “un personaggio contraddittorio e pieno di conflitti”, lo descrive Zingaretti. “Bruno Testori è stato un regalo perché è uno di quei personaggi che noi attori adoriamo, mi ha dato l’occasione per ricominciare a divertirmi”. […] A proposito del commissario nato dalla penna di Camilleri, Zingaretti ribadisce: “È stata un’avventura e una cavalcata trionfale durata molto tempo, che ricomincerei domani”. Sono venuti a mancare i pilastri portanti di quella serie (uno su tutti lo scrittore siciliano), ma “mai dire mai: nella vita, chi può dirlo”, dice l’attore. Mancano infatti all’appello due libri, che non sono stati ancora riadattati in tv» (Emanuele Bigi). «Sia al cinema che in tv scelgo solo in base a ciò che mi piace. Quando ho portato a teatro The Pride, storia gay, i miei collaboratori erano preoccupati per le reazioni del pubblico, ma io ho instaurato col mio pubblico un rapporto di fiducia. La furbata non mi appartiene. Nel film Thanks for vaselina di Gabriele Di Luca faccio un trans. Il privilegio è essere libero di scegliere» (a Silvia Fumarola). «“Il Covid, con tutto il dolore che ha portato, ci ha fatto riflettere. […] Mi sono detto: forse, se la tua carriera è andata come è andata, è per il ‘fattore c’, ma qualcosa di buono l’hai imparato. Dèdicati alla creatività. Non avrei mai voluto che avvenisse così il passaggio alla regia, per la malattia e la scomparsa di un amico come Alberto [Alberto Sironi, in seguito alla cui morte Zingaretti diresse gli ultimi episodi in lavorazione – ndr]. Ora sto pensando a mie regie, a creare progetti. Sempre nel massimo rispetto dei miei limiti e dei miei difetti, mi sono autorizzato a entrare in un mondo creativo. L’orizzonte da attore mi cominciava a stare un po’ stretto”. Però non smette di recitare. “No”» (Fumarola) • Cofondatore, con la moglie Luisa Ranieri, di Zocotoco, casa di produzione teatrale (The Deep Blue Sea di Terence Rattigan, diretto da Zingaretti e interpretato dalla Ranieri), cinematografica (Vita segreta di Maria Capasso di Salvatore Piscicelli, interpretato dalla Ranieri) e televisiva (Le indagini di Lolita Lobosco di Luca Miniero, serie anch’essa interpretata dalla Ranieri) • Divorziato dalla scrittrice e giornalista Margherita D’Amico (classe 1967), figlia del critico teatrale Masolino D’Amico e quindi nipote della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, dal 2005 è sentimentalmente legato all’attrice Luisa Ranieri (1973), che ha sposato nel 2012 e da cui ha avuto le due figlie Emma (2011) e Bianca (2015). «La conquistai sul set di Cefalonia. Le facevo trovare fiori dappertutto. Prenotavo l’intero ristorante, c’erano fiori su ogni tavolo. Cedette per sfinimento». «Io sono uno che tende alla malinconia, e Luisa per me è stata davvero una luce». «Le mie figlie mi pagano il biglietto per un secondo giro nella giostra della vita. Ho riscoperto lo stupore del mondo attraverso il loro stupore» (a Candida Morvillo) • «Lei non ha paura della morte? “Io adoro la vita. La mia vera paura è vivere male. È guardarmi indietro e dire: potevo giocarmela meglio”. Crede in Dio? “Ho un rapporto molto personale con il trascendente. Avverto il desiderio di qualcosa che ci comprenda tutti, l’aspirazione all’immortalità; ma fatico a inquadrarla in una fede religiosa. Se mi succedesse qualcosa, vorrei una benedizione da cattolico, ma lo so, che è una posizione di comodo”. Come immagina l’Aldilà? “Non me lo immagino. La vita è ora e qui. Bisogna cercare di stare bene, che non vuol dire andare alle Maldive, ma vivere appieno ogni momento, anche il peggiore: perché può sempre riservare sorprese”» (Cazzullo) • «Lei si è definito un uomo di destra costretto a stare con la sinistra. Lo ribadisce? “Era una provocazione. La destra italiana è legata al suo passato, al fascismo, che non è solo inaccettabile, essendo stato una dittatura, ma oggi decisamente anacronistico come modello da proporre. La mia affermazione voleva sottolineare polemicamente che concetti come per esempio patria, disciplina, sicurezza sembrano essere infrequentabili perché riportano a quel periodo lì, e non lo trovo corretto: si può amare la propria patria o desiderare un po’ di sicurezza senza aver nessuna nostalgia del fascismo”» (Cresto-Dina) • «Che cos’è per lei la bandiera dell’Italia? “La patria. Quando la vedo sventolare e parte l’inno, mi alzo in piedi mano sul petto”» (Zincone) • «Non è mondano, ama la Roma, il mare, la pesca, le lunghe nuotate a Pantelleria. Zingaretti da ragazzo sognava il calcio. Ancora, ovunque si trovi, prende volentieri a calci un pallone» (Fumarola) • Amante della lettura, nella sua biblioteca annovera «romanzi, saggi, testi teatrali. I volumi sono tutti schedati, su ognuno c’è la data in cui è stato letto e un giudizio: “Bello”, “Fila poco” e via dicendo» (Zincone) • «Il libro della vita? “Teresa Batista stanca di guerra di Jorge Amado: un regalo della mia prima fidanzatina al liceo. Ma poi ce ne sono mille altri. Trascrivo su un taccuino le frasi più belle”. Per citarle al momento giusto? “No. Per godermele quando vado a rileggerle”. La canzone? “Ho una cultura musicale pari a zero. Da ragazzo consideravo le note dei Led Zeppelin un rumoraccio. Meglio i cantautori italiani”. Un nome e un titolo. “Colleghi trascurati di Paolo Conte”. Il film? “Il cacciatore di Michael Cimino”. Sulla guerra in Vietnam. “È la più bella storia sull’amicizia e sulla perdita dell’innocenza che sia stata filmata”» (Zincone) • «Un attore molto perbene. È un uomo semplice, dotato di sottile ironia, grinta da vendere e granum salis. Un grande professionista» (Urbano) • «Il ruolo cinematografico che le sarebbe piaciuto interpretare? “Immagino si possa sognare, e allora dico Napoleone, con la regia di Kubrik: era un suo pallino. Oppure mi sarebbe piaciuto fare uno dei due personaggi dell’Uomo in più di Paolo Sorrentino, peraltro recitati magistralmente da Servillo e Andrea Renzi. Ma con Sorrentino, anche dopo aver visto il meraviglioso È stata la mano di Dio, farei qualunque cosa. Anche Cenerentola”» (Cresto-Dina). «Benedico la mia lunga e dura gavetta: mi ha dato tanti strumenti e difese. Ora, se pure mi dovessi trovare, che so, su un grande set internazionale, proverei grande rispetto, ma paura no. Di niente e nessuno. […] Sono uno che è rimasto umile, ma che non ha più timori reverenziali» (a Boris Sollazzo) • «Ancora oggi seguo l’insegnamento di Gastone Moschin. Ogni interprete, per essere davvero bravo, deve tenere sempre con sé, a portata di mano, un taccuino: il “taccuino dell’attore”, dove appuntare tutti i giorni quello che vede e ascolta per la strada tra le persone. Cercare di capire gli uomini, tentare di comprenderne le azioni e le motivazioni, è l’unico modo per riuscire a rappresentarli al meglio!» • «Ti senti un uomo fortunato? “Ma certo che mi sento fortunato. Mio padre diceva sempre che nella vita devi avere la fortuna di non avere sfortuna: una grande verità che ignoriamo troppo spesso”» (Sollazzo) • «Vorrei essere solo riconosciuto come un bravo attore: se posso osare, come Anthony Hopkins, che nessuno pensa sia soltanto Hannibal the Cannibal» (a Paolo D’Agostini) • «Ho fatto tutto con dieci anni di ritardo. Mi sono sposato per la prima volta a trentaquattro anni, sono diventato “conosciuto” dopo i trentacinque mentre tanti colleghi erano già famosi a venti. E ho avuto il primo figlio a cinquanta. Vorrà dire che mi toccherà vivere dieci anni in più del previsto: pazienza».