la Repubblica, 14 dicembre 2022
Dieci anni di Fratelli d’Italia
«Siamo pazzi», dice Ignazio La Russa ai suoi, assiepati al freddo sotto i portici di Galleria Sordi, sullo sfondo Palazzo Chigi. «Alza quel simbolo!», ordina a Riccardo De Corato, detto “lo sceriffo”. Poche decine di parlamentari che si pestano i piedi dietro a un banchetto. «Grande organizzazione per il nuovo partito», scappa da dire a Giorgia Meloni. E tutti ridono. Roma, 21 dicembre 2012. Nasce Fratelli d’Italia con una conferenza stampa sulla strada. «Mannheimer ci dà una potenzialità del 14 per cento», annuncia La Russa. La scena è immortalata in un video che si trova in rete. Ma nessuno quel giorno è disposto a puntare un centesimo sugli ex missini. La sera la notizia compare nel riepilogo dell’ Ansa, quattro righe in un pezzo di quaranta. Anche sui grandi quotidiani la novità sta ai margini.
Chi l’avrebbe detto che sarebbe poi andata così?
L’inverno è quello che precede le elezioni del febbraio 2013. Il Paese è stremato dall’austerità. Cova, specie al Sud, un rancore diffuso. Il Movimento 5 Stelle si presenterà per la prima volta alle elezioni, in pochi pensano che possa rappresentare davvero una minaccia. Il premier, da un anno, è Mario Monti. Il professore col loden che ha deciso di scendere in politica. Destra e sinistra se lo contendono. Il grande favorito però è Pier Luigi Bersani, il leader del Pd. Favorito anche dalle divisioni della destra, spezzata in quattro tronconi: il Pdl di Silvio Berlusconi, Futuro e Libertà di Gianfranco Fini, la Destra di Francesco Storace. A cui si aggiunge adesso il partito di Meloni. Quando vanno ad informarlo, il Cavaliere alzerà il sopracciglio.
A novembre Berlusconi aveva indetto le primarie per eleggere il suo delfino. Si erano candidati Angelino Alfano e Giorgia Meloni. Quest’ultima ha raccolto in pochi giorni ventimila firme. «Corre per vincere o per farsi vedere?», le chiede Francesco Bei su Repubblica. «Corro per rappresentare delle idee, se saranno maggioritarie vincerò», risponde. E un bel mattino con un annuncio a mezzo stampa, il Cavaliere annulla tutto. Niente primarie. Per poi aggiungere che solo il dieci per cento dei parlamentari uscenti sarà ricandidato. Quelli che vengono da An vanno nel panico. I sondaggi danno il Pdl al 15 per cento. Una stagione pare finita per sempre.
Giorgia Meloni in quel momento ha 35 anni. È stata la ministra più giovane di sempre. Decide per l’azzardo. Fa la scissione. Il suo compagno di viaggio è Guido Crosetto. Un ex democristiano. Sono diventati amici nell’avversione a Monti, quando Crosetto in aula ha annunciato, unico in Forza Italia, il suo voto contrario al Fiscal compact. Gli ex amici piemontesi lo hanno dissuaso: «Che c’entri tu con La Russa e Meloni?». Discutono a lungo del nome. Sta per passare Figli d’Italia. «Meglio Fratelli d’Italia», ribatte Fabio Rampelli, citando l’inno di Mameli. Quell’anno – scrive Susanna Turco in Re Giorgia, Piemme, un bel libro che ricostruisce l’affermazione del melonismo – “Giorgia” apre il suo profilo Instagram. Oggi ha 1,4 milioni di follower.
Le primarie del centrodestra erano previste per il 16 dicembre. Quel giorno Meloni raduna i suoi all’auditorium della Conciliazione, lo stesso dove due anni prima Fini col ditino alzato aveva detto a Berlusconi: «Che fai, mi cacci?»: per sfregio lo battezza “Le primarie delle idee”. Si presentano in cinquemila. Contesse e proletari. Crosetto e Meloni hanno chiamato la loro corrente nel Pdl “Senza paura”. «Ci serve un premier che non sia Schettino» urla Meloni. Tra gli ospiti c’è anche Francesco Storace: «Si percepiva una visione», ricorda adesso.
Quel giorno però l’appuntamento ritenuto più importante è un altro: la convention al Teatro Olimpico del Pdl che sogna il bis di Monti premier. È la manifestazione di Gianni Alemanno («Monti candidato ideale»), Adolfo Urso, Mario Mauro. «Candidarlo a leader del centrodestra mi fa pensare a Mussolini che organizza una festa per Badoglio», dice Crosetto. Poi prende in braccio Meloni, una foto famosa. «Vogliamo un luogo giusto dove poter lottare per trasformare i nostri sogni in realtà», spiega Meloni. È la destra pura. Nel simbolo arde la fiamma dei reduci di Salò che fondarono l’Msi. «Puntiamo al 3-6 per cento». E tutti intorno a ridere.
Meloni va a visitare il circolo Pd di via dei Giubbonari, un partito che le primarie le fa. L’accoglie Marco Miccoli, il segretario romano del Pd. «Facciamole anche noi», dice. E attacca Dell’Utri, le banche, il Salva Stati. «Né con Monti né con Berlusconi», ripete. Lo zio Gnazio lascia il posto di coordinatore del Pdl portandosi dietro trenta parlamentari. «Senza di lui non ce l’avremmo fatta» scrive Meloni in Io sono Giorgia.
Ieri pomeriggio. Sede di Fratelli d’Italia, via della Scrofa. Il capo dell’organizzazione Giovanni Donzelli, in camicia bianca, presenta il programma per la festa del decennale. Tre giorni di kermesse in piazza del Popolo, da domani a sabato. Quelli che c’erano in quel video picaresco sono diventati premier, o ministri, o presidenti del Senato. L’estrema destra è a Palazzo Chigi. «Mai lo avremmo immaginato allora», ammette Donzelli. «Nessuno pensava di arrivare fin qui», gli fa eco il capogruppo alla Camera Tommaso Foti. «Lasciateci iniziare, non abbiamo un euro in tasca, ma vediamo che succederà» aveva detto quel giorno Crosetto all’Auditorium. Sottovalutazione dopo sottovalutazione, Giorgia Meloni alla fine si è presa il potere.