La Stampa, 13 dicembre 2022
La polverizzazione del ceto medio
Il ceto medio si è disintegrato prima come “classe” poi come concetto in grado di spiegare gli assetti sociali del nostro Paese. Oggi è un pulviscolo di figure, un composto eterogeneo dove pesca soprattutto la destra.
Nel Novecento ha rappresentato tutto quello che c’era in mezzo tra proletariato e borghesia o, come si diceva allora, tra operai e padroni. Era una massa amorfa, gelatinosa, priva di un’autonoma rappresentanza politica e pronta a schierarsi sull’uno o sull’altro fronte a seconda dei rapporti di forza che emergevano nello scontro di classe. Fu così, ad esempio, per la sua decisiva partecipazione al blocco sociale che decretò la vittoria del Fascismo nel 1922 quando, spaventato dai moti rivoluzionari che si accesero in Europa, cercò protezione e rassicurazione all’ombra degli agrari e dei grandi industriali, tutti sedotti dall’efficienza militare degli squadristi di Mussolini.
Durante il Ventennio i ceti medi aumentarono contemporaneamente a una progressiva invasività dello Stato nei confronti della società civile con l’avvio di una commistione pubblico/privato destinata a durare nel tempo, ben al di là della caduta del Fascismo. Si pensi a enti come le aziende del turismo, le opere pie, le casse mutue e le associazioni di varia assistenza per invalidi, orfani, pensionati, gli enti fieristici, le camere di commercio, i consorzi di bonifica, di istruzione tecnica, tutti chiamati a gestire direttamente interessi privati coordinandoli con finalità pubbliche. Rassicurati sul loro status, garantiti da stipendi fissi, i ceti medi furono i protagonisti di quella che gli storici hanno definito una «nazionalizzazione burocratica» e, sprofondati nel tepore protettivo delle mura domestiche, sperimentarono un modus vivendi con il fascismo fondato sul tentativo di trarne tutti i vantaggi possibili evitandone gli svantaggi, profondendovi astuzia ed energia, passività e silenzio, accettazione, accomodamento e consenso per approdare, alla fine, all’«indifferenza» del romanzo di Alberto Moravia.
Con il crollo del Fascismo, orfani di certezze politiche, confluirono nel magma indistinto dell’interclassismo cattolico, trovando nella Dc molti di quegli elementi di rassicurazione e di garanzia che ne avevano sollecitato l’adesione al regime di Mussolini. E anzi il rapporto ceti medi/Democrazia Cristiana fu così solido da provocare, quando si incrinò, la scomparsa della Dc e la fine della Prima repubblica. E fu allora che la loro storia cominciò a cambiare.
Per sostituire la Dc si sforzarono di trovare una nuova rappresentanza politica lasciando affiorare un tumultuoso estremismo di centro che li vide accantonare il loro tradizionale moderatismo per abbracciare un inedito radicalismo i cui elementi salienti proponevano nell’ordine: in alternativa al “buon padre di famiglia” della tradizione cattolica, una identità fondata sulla figura del piccolo imprenditore, modello casa-capannone; un universo ideologico in cui i valori coincidevano con gli interessi; una dimensione politica organizzata intorno a una leadership carismatica (rimbalzando da Bossi a Berlusconi fino a Salvini e Meloni); una proposta complessiva fondata sul tentativo di ridurre il peso contrattuale della massa dei salariati, abbassare il costo del lavoro grazie all’abolizione degli ammortizzatori sociali, trasformare la scuola, la sanità, le pensioni da “servizi” a cui si aveva diritto in beni privatizzati da acquistare, delegittimare il fisco come una pratica che «metteva le mani nelle tasche dei cittadini».
Il resto lo fece la globalizzazione. E al loro interno si registrò una netta frattura. Una fascia medio-alta fu sedotta dalle potenzialità di un mercato globale, di un liberismo che travolgeva i vecchi ostacoli autarchici e statalisti trovando nella sinistra (oggi incarnata dal Pd) la forza politica più vicina alle proprie istanze; ne apprezzò soprattutto l’ostinazione con cui si intendeva garantire la governabilità (e la stabilità) del sistema politico, rimuovendo ogni tensione conflittuale dal proprio modo di intendere la democrazia. E gli elettori di sinistra divennero, conseguentemente, quelli che pagavano le tasse, che si riconoscevano nei valori della Costituzione e ambivano a rappresentarsi come “persone perbene”.
Di contro, quelli spaventati dall’immaterialità dei flussi della globalizzazione (e alle prese con l’inquietante presenza degli “stranieri” direttamente a casa propria), confluirono nel sovranismo, riconoscendosi compiutamente nello slogan «prima gli italiani». Si trattava di una realtà sociale al cui interno si decomposero le fratture tradizionali della nostra storia (città/ campagna, nord/sud, proletariato/borghesia) e si ridefinirono gli stessi schieramenti tradizionali di destra e sinistra. Non furono più gli impiegati pubblici in nerbo di una destra che smise di essere statalista e centralista. Camionisti e facchini, taxisti arrabbiati con Uber, spiaggiati e organizzatori di eventi presero ad affollare quella che Aldo Bonomi ha definito la «microfisica dei sottostanti». Ed è la Finanziaria proposta dal nuovo governo di destra a dirci con nettezza (come ha scritto Massimo Giannini su questo giornale) quali sono oggi i suoi interlocutori privilegiati, a partire dalla massa che affolla la zona del “nero” e del “sommerso”, un’area vastissima che vale molto di più dei 70 o 100 miliardi stimati. Giorgia Meloni è stata quasi brutale nel suo discorso in Parlamento: «Per i dipendenti possono bastare 11 euro al mese in busta paga grazie al taglio del cuneo fiscale; per il resto siamo al fianco dei lavoratori autonomi, artigiani, commercianti, liberi professionisti, figli di un dio minore che invece costituiscono un asse portante dell’economia italiana». Il fatto è che, a differenza della sinistra, la destra non ha nessuna difficoltà a riconoscere i propri elettori e, di conseguenza, a premiarli.—