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 2022  dicembre 13 Martedì calendario

Intervista a Gordon Lish

È stato il più influente editor americano tra i Settanta e i primi anni Zero; ha inaugurato un modo di scrivere– conciso, sospeso, omissivo – che si opponeva all’allora giovane tradizione postmoderna. Si è autoproclamato “Captain Fiction” e, forte del crescente potere editoriale (editor per Esquire,editor per Knopf, la più grande casa editrice di allora, e al contempo unico timoniere diThe Quarterly,una rivista-allevamento dove sono passati tutti i grandi nomi), forte dei suoi interminabili laboratori di scrittura ha messo su una schiera di nuovi narratori. Il suo archivio alla Lilly Library dell’Indiana University consta di ottantamila lavori, migliaia di scrittori editati, una porzione significativa della migliore narrativa di quegli anni.
Tra quei faldoni c’è l’archivio Raymond Carver. A ottantotto anni Lish ha appena consegnato un nuovo romanzo, After Peru,un ulteriore passo nel territorio della confessione, variante oggi di moda, ma praticata da Lish fin dagli esordi come scrittore. C’è chi fa le veci e chi fa le voci.
La sua è una strana e unica forma di fiction poco finzionale.
Incentrata sulla prima persona, si nutre della sua biografia e di una rielaborazione di essa. Sembra che lei sia sotto processo. Da dove viene questa voce?
«Viene senz’altro da fonti che eludono il dare un nome alle cose, o il rifiutarsi di farlo, sentimenti che arrivano alla stessa conclusione. Mi faccia rispondere così: il permesso è dato dall’avanzare minaccioso della morte. La morte è il miglior amico dell’artista, c’è poco da obiettare».
Negli ultimi anni ha più volte affermato che lei in realtà non si sente uno scrittore, ma un editor e un insegnante. Di contro, in questi ultimi tempi ha scritto tantissimo. Ha cambiato idea?
«I descrittori che mi si possono assegnare a proposito del mio coinvolgimento con scrittura, editing e insegnamento coincidono. Non c’è bisogno di qualsivoglia scrutinio grammaticale: Lish è sia questo siaquello. È il soggetto a rimanere costante, mentre l’oggetto è invariabilmente la pratica della letteratura».
Nella sua narrativa ricorrono certi episodi, certe scene, anche se ogni volta vengono trasformati; penso alla morte di Buddy Brown in “Caro signor Capote” o a quella di Alan Silver nel racconto “Senso di colpa” (incluso nel recente “Come scrivere un racconto”, Racconti edizioni). Pensa sia vero l’adagio che gli scrittori in fondo raccontano sempre la stessa storia? E lei perché lo fa?
«Posso dire che l’impulso a ripetere è ingovernabile ed è molto più che un buon motivo, anzi è il grandissimo avversario che ogni scrittore ha tentato di soggiogare.
Dipende dall’essere ebreo? Dalla volontà di dissenso? DeLillo, intelligentemente, eviterebbe la domanda. Io la accolgo, ma non sono in grado di proporre una risposta convincente, segno che ho bisogno di cure psichiatriche».
«Dire sempre la verità» è uno dei suoi paradigmi nelle lezioni di scrittura, negli editing, e nelle sue opere. Intende però una versione decisamente particolare della verità. Crede che la ricerca della verità sia il motore più importante e genuino dello scrivere?
«Non rinuncio mai al mio desideriodi rivelare ma neppure rivendico di essere riuscito a disattivare tale desiderio. Più ci si avvicina alla rivelazione, migliore è la prosa.
Perché? Perché la truffa riesce meglio quando emerge dal cuoredella personalità?
Non posso dire il motivo (anche se di fatto l’ho detto). Oppure, mettiamola così: l’attenzione è necessariamente più focalizzata in una visione tremenda che siapprossima al limite dell’attenzione».
«Cercare sempre l’aspetto misterioso delle cose» è un altro dei suoi punti fermi. Crede sia ancora vero che i lettori siano attratti dall’enigmatico, o l’omogenizzazione dei gusti ha reso tutto più didascalico?
«Vale la prerogativa di Freud per l’unheimlich. Più è perturbante più è vero».
Crede che l’invidia, la gelosia, l’ammirazione siano forze creative determinanti nell’espressione artistica?
«Se l’artista è il più umano degli uomini, affermazione che merita certamente di essere confutata, allora l’artista è animato dai sentimenti più abietti».
Vorrei che mi raccontasse come le è venuto in mente di scrivere e pubblicare senza nome “A Rupert, senza promettere niente”, una sofisticata e ben riuscita prosecuzione del lavoro di J.D. Salinger. Ricorda l’energia che la pervadeva mentre scriveva?
«Era il 1977 eEsquire era in crisi.
L’allora direttore aveva supplicatogli editor di escogitare qualcosa di straordinario per salvare la rivista.
Dissi che avevo un’idea, ma che l’avrei attuata solo se avesse accettato di pubblicare qualsiasi cosa avessi portato il giorno dopo.
Tornai a casa piuttosto ubriaco, mi sedetti alla Selectric e in due ore scrissiA Rupert, senza promettere niente. Si scatenò un putiferio.
Molti credettero che fosse davvero Salinger, altri che fosse Updike che imitava Salinger. La notizia finì in prima pagina. Cosa mi pervadeva mentre scrivevo Rupert? Beh, non sono così pazzo da dire che mi consideravo Salinger, no. Ero un imbroglione, puro e semplice.
Sentivo di compiere un atto letterario. Quel numero di Esquireandò a ruba».
Una volta, parlando del suo modo di fare editing, ha detto: «Devo avere carta bianca», e questo implica una viscerale interpretazione del testo.
L’editing, quindi, non è altro che una forma di critica letteraria.
Qual è il bilanciamento naturale tra le forze che agiscono sul testo?
«L’ha detto in modo superbo: l’atto dell’editing è il primo atto di critica. Non esiste un “equilibrio naturale”. C’è una lotta. L’editor arriva dopo lo scrittore: l’editor in gamba sposta, sovrascrive, si sbarazza dell’inutile – non in onore della sua forza, del suo ego, ma per il bene, il meglio, la cosa migliore possibile per il testo –, e tutto questo alla luce del suo essere arrivato dopo».
L’odiosa questione Carver.
Tanto si è scritto, tanto si è detto, in pochi sanno che la collaborazione tra lei e Carver è iniziata in California, alla fine degli anni Sessanta ed è prima di tutto la storia di un’amicizia.
Sarebbe bello fare chiarezza.
«Carver? Voglio chiudere una volta per tutte questa assurda confusione. Non c’è spazio per le speculazioni. Ogni dettaglio sull’editing è nei fogli dell’Archivio Lish presso la Lilly Library dell’Indiana University a Bloomington. Sa cosa ho fatto? Ho trasmutato l’effimero in qualcosa di durevole, bello e potente. Non c’è più nulla di rilevante da dire, nessuna critica da fare, nessun brontolio che meriti un rimprovero.
Leggete l’opera, la mia opera.
Leggete ciò che l’opera ha cancellato, l’opera di Carver. Non si è sollevato nessun polverone per l’editing di Maxwell Perkins su Thomas Wolfe.
Perché? Si trattava dell’incontro tra due gentiluomini cristiani. Idem per il lavoro di Pound su Eliot. Lish è un’apparente eccezione. Non è difficile chiedersi perché».
Ha letto l’ultimo Cormac McCarthy?
«Mi sono messo comodo sulla sedia con gli occhiali da lettura e la lente d’ingrandimento e sono riuscito a leggere quasi nove pagine diThe Passenger. Oh, vado avanti così lentamente… non provo alcun piacere, ma solo angoscia nel dire: “Terribile, terribile, terribile”.
Cristo, la vecchiaia. Ha letto Il silenziodi DeLillo? Terribile. È possibile che anche il mio After Perusia terribile?».