la Repubblica, 13 dicembre 2022
La lezione di Stalingrado
Ottant’anni fa la battaglia decisiva per le sorti della guerra e la caduta di Hitler: ci dimostra come i dittatori in crisi diventino ciechi e ostinati
«Le orde bolsceviche, incapaci di sconfiggere i soldati tedeschi e i loro alleati quest’inverno, saranno abbattute e annientate entro l’estate»: di fronte a una folla entusiasta, alla cerimonia del 15 marzo 1942 per la Giornata Commemorativa degli eroi, Adolf Hitler annunciò che a breve su Stalingrado avrebbero sventolato le bandiere con le croci uncinate.
La città sarebbe stata occupata e rasa al suolo in otto giorni e le truppe germaniche avrebbero potuto festeggiare giustiziando un milione di comunisti. Il 21 agosto il generale Friedrich Paulus attaccò l’urbe sovietica mentre la Luftwaffe bombardava a nord. Prendeva così avvio la celebre battaglia che vide, tra l’altro, la 62ª armata del generale Vasilij ?ujkov contrapposta alla 6ª di Paulus in una sfida mortale: «È una questione di vita o di morte dal cui esito dipende oltre misura sia il nostro prestigio sia quello dell’Unione Sovietica», annotò Joseph Goebbels. Il Führer fu costretto ben presto però a riconoscere che le sue rosee previsioni erano fallite. Lo confessò a Galeazzo Ciano il 18 dicembre mentre era in corso la disfatta del contingente militare italiano in Russia.
Sono trascorsi ottanta anni da quei fatidici giorni i quali segnarono la sconfitta degli eserciti dell’Asse sul fronte orientale. La débâcle fu fondamentale per la fine della guerra e per la prima volta si interruppe il sistema di fake news, fatto di propaganda e di demagogia, che legava Hitler e il suo popolo: i tedeschi persero la fiducia negli inganni, negli appelli al valore e all’eroica difesa che facevano parte della «realtà alterata connaturata al sistema di comunicazioni del Terzo Reich a tutti i livelli», come oggi ribadiscono le più recenti ricerche, ad esempio Hitler. La Caduta 1939-1945 di Volker Ullrich (Mondadori).
Ma perché il Führer teneva tanto alla città che si estendeva per 24 chilometri lungo il fiume Volga?
Stalingrado non era solo il sito che si fregiava del nome dell’odiato antagonista ma aveva per Hitler un forte valore simbolico: era il punto di partenza per la creazione di uno Stato pangermanista e per l’instaurazione del Nuovo Ordine. Non si trattava solo di abbattere il “criminale” e “illegittimo” regime sovietico ma di dare il via alla riorganizzazione razziale della Russia europea attraverso il Generalplan Ost (“Piano Generale per l’Est”) che prevedeva l’eliminazione fisica o la riduzione a semplice manodopera dei cosiddetti “subumani” (Untermenschen ): il popolo russo doveva finire in schiavitù mentre si spazzava via la presenza ebraica. A dicembre Heinrich Himmler fece pervenire al leader nazionalsocialista un rapporto segreto con cui lo informava soddisfatto che erano stati giustiziati nella Russia meridionale 363.211 banditi ebrei, inclusi donne e bambini, mentre i delinquenti non ebrei su cui i tedeschi si erano accaniti ammontavano “solo” a 14.257. A partire dalla resa di Stalingrado, il Führer sognava inoltre l’edificazione di una Germania autarchica, che avrebbe utilizzato le abbondanti risorse dell’Ucraina, della Crimea e il petrolio del Caucaso.
Per contrastare le truppe della Wehrmacht, i russi combatterono strada per strada tra le rovine degli edifici di Stalingrado, con mitragliatrici, lanciafiamme e cannoni. Mentre con una manovra a tenaglia dall’esterno della città riuscirono a chiudere le forze tedesche nella sacca di Stalingrado detta Kessel, “il calderone”, o “Fortezza Stalingrado” da Hitler per sottolineare che era invincibile. Gli assedianti si trasformarono in assediati e i difensori divennero attaccanti.
Fu travolto anche il corpo di spedizione italiano, l’8ª Armata che avrebbe dovuto proteggere la 6ª armata intrappolata in città. Come mai il Führer segnalò proprio a Ciano il disastro? Lo fece da consumato attore, per addebitare la pessima conduzione della battaglia agli italiani: «Si tendeva apertamente a darne a noi la colpa», registrò Galeazzo. Hitler infatti sostenne: «Le capacità belliche degli alleati italiani meritano il più assoluto disprezzo». Il capo del Reich continuò però a proclamare pubblicamente che Stalingrado sarebbe diventata tedesca. Il generale Paulus, malato, coordinava la resistenza da una cantina di Stalingrado e la disperazione dei soldati della Wehrmacht fu nota all’intero popolo tedesco: «Sono disperato... fame, fame e poi sporcizia, i pidocchi... Giorno e notte ci bombardano incessantemente», scriveva alla famiglia un caporale. Sui muri apparirono scritte come «Hitler assassino di Stalingrado». Il despota, ostinato, ordinò: «Proibisco la resa. La 6ª armata terrà le posizioni fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia».
I suoi ordini verranno disattesi: quello che rimaneva della Wehrmacht e lo stesso Paulus si arresero il 2 febbraio 1943. Da allora l’Armata rossa proseguirà nella sua marcia vittoriosa e il capo del Reich si suiciderà nel bunker della Cancelleria. Dimostrando che un dittatore in crisi e prossimo a una sconfitta diventa sempre più cieco e ostinato nel suo credo distruttivo.
Per la prima volta si interruppe il sistema di fake news, propaganda e demagogia che legava il tiranno al popolo tedesco