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 2022  dicembre 13 Martedì calendario

Intervista a Giuseppe De Rita

«Così com’è, la nostra società vive del primato del soggettivismo. Ma se la persona diventa l’espressione di un soggettivismo che diventa maniacale forse è il momento di tornare un po’ indietro».
Dall’alto dei suoi 90 anni, 60 dei quali trascorsi ad osservare l’evoluzione della società italiana, Giuseppe De Rita sociologo e fondatore del Censis, ricorre a categorie dell’etica e della filosofia per inquadrare l’ultimo episodio di follia che ha sconvolto l’Italia.
Professore De Rita, l’idea che si possa andare a una riunione di condominio ed essere uccisi fa paura a chiunque di noi.
«Sa cosa fa paura? Il fatto che oggi non c’è nessuno, in famiglia, a scuola, in un luogo di lavoro, che possa veramente dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Prima c’erano delle regole chiare, un padre vedeva un figlio assumere comportamenti ritenuti sbagliati e interveniva. Oggi la norma è l’aumento della soggettività, tutti fanno quello che vogliono e restiamo inerti davanti a comportamenti devianti come quello dell’uomo che ha ucciso queste tre donne».
Il profilo di questa persona la disegna come da tempo sola e chiusa in sé stessa, con i social unico luogo di sfogo. E moltissimi fatti di cronaca degli ultimi anni raccontano storie analoghe. La sensazione è che le agenzie sociali primarie, famiglia, scuola, amici, non siano più in grado di intercettare questa solitudine.
«È certamente così, le agenzie primarie non sono in grado di fornire più amicizia o meccanismi di sostegno, solidarietà o qualsiasi altro sentimento diverso da questo narcisismo che può esplodere in maniera deviante.
Succede in chi, ormai da anni, è chiuso in questo soggettivismo. E il fatto che nessuno di chi sta accanto sia in grado di intercettare in tempo il fattore di rischio è la controprova del fatto che ognuno di noi ha paura di invadere la sfera privata dell’altro. E se ne disinteressa».
Ma è davvero così difficile intercettare questa solitudine?
«Non sono uno psichiatra e non so parlare di disagio mentale ma analizzo da tanti anni la società italiana che attraversa quella che si definisce una fase di latenza».
Sarebbe?
«Chi ha figli ricorda la fase che i bambini attraversano tra gli 8 e gli 11 anni. Non si va avanti e non si va indietro. Troppo piccoli ancora per avere ambizioni per il futuro o grandi desideri o grandi paure perché si è ancora coperti dagli adulti. Uno sorta di stato di sospensione, fisiologica che – come diceva Freud – bisogna solo avere il coraggio di lasciar passare».
Ma quello che succede così spesso non ci dice che lasciar passare è rischioso?
«Effettivamente in Italia questa fase di latenza sta durando un po’ troppo e questo può portare a tentazioni masochiste, violente, di bullismo, fenomeni difficilmente interpretabili. Succede quando un sistema politico, sociale, economico resta impantanato,non riesce ad andare né avanti né indietro, non riusciamo a creare un futuro e allora guardiamo ancora al passato che ci appare tranquillizzante. L’Italia è un Paese così, reagisce bene solo quando subiamo grandi traumi mentre le fasi di passaggio ci vedono in difficoltà».
Il Covid non è stato un grande trauma per il Paese?
«No, non ha prodotto una reazione collettiva. Ha portato semmai a un ricovero in sé stessi, ha creato un meccanismo di esasperazione del rapporto con sé stessi, le persone si sono chiuse per paura della contaminazione, favorendo il proliferare di tante paure individuali. Abbiamo finito per vivere in adorazione del nostro ego, in cui tutto è consentito e accettabile. C’è poco da stupirsi, il soggettivismo etico è l’elemento fondamentale della nostra società da oltre 50 anni e porta inevitabilmente al narcisismo di chi sta solo chiuso in sé stesso».
Assai poco rassicurante. Che c’è da fare?
«Di per sé il soggettivismo è stato un processo di grande liberalizzazione da una morale stretta e opprimente. Ma certo, quando ci si accorge che si è arrivati al limite, che sta diventando incontrollabile bisognerebbe avere il coraggio di fermarsi e tornare un po’ indietro».