Corriere della Sera, 13 dicembre 2022
Gli anni Settanta sotto tutti i punti di vista
Il fulcro del libro è, com’era naturale, il caso Moro, che l’autore ha studiato a lungo. Ma non soltanto Miguel Gotor racconta dettagli illuminanti sull’assassinio del presidente Dc; supera la lettura tradizionale, secondo cui la morte di Moro chiude gli anni Settanta e l’era democristiana.
È vero il contrario. Giustamente Gotor colloca la fine del decennio nel 1982, con la vittoria dei Mondiali di calcio in Spagna. È allora che l’Italia cambia umore. Finisce la politica di strada e di piazza, che tanti guai aveva fatto, ma aveva chiamato una generazione alla vita pubblica. E inizia il riflusso, la ritirata nel privato, il disimpegno. L’età dei paninari. Della discomusic, della gioia di vivere, del consumismo, del «rampantismo» come scrive l’autore, e anche della ripresa economica. Con la fine di quella mimesi di guerra civile durata per più di un decennio.
Quanto alla Dc, sopravvivrà senza troppi patemi all’assassinio di uno dei suoi «cavalli di razza». Gotor ricorda non solo che la Democrazia cristiana governerà il Paese fino al 1992 (sia pure cedendo provvisoriamente Palazzo Chigi tra l’81 e l’87, sempre mantenendo però il ministero degli Interni), ma che i protagonisti del caso Moro avranno tutti un futuro luminoso. Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga si dimette dopo il ritrovamento del corpo in via Caetani, plastico simbolo del fallimento del Viminale e dello Stato; ma poco più di un anno dopo lo ritroviamo presidente del Consiglio, poi presidente del Senato, quindi presidente della Repubblica. Bettino Craxi, fautore della trattativa, ha davanti a sé i suoi anni più luminosi, prima del declino brusco e della fine drammatica. Quanto a Giulio Andreotti, l’uomo della linea dura e della velina – falsa – sulle «vedove di via Fani pronte a darsi fuoco», sarà proprio lui l’ultimo capo di governo della Democrazia cristiana.
Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve (Einaudi) ha il pregio di farci vedere il decennio definito spesso come «di piombo» da diversi punti di vista. Ad esempio da quello dell’evoluzione sociale: Statuto dei lavoratori, legge sul divorzio confermata dal referendum del 1974, riforma del diritto di famiglia con l’abolizione della potestà maritale e l’uguaglianza tra uomo e donna, depenalizzazione dell’aborto, apertura della scuola ai rappresentanti delle famiglie.
Ovviamente c’è il racconto della violenza politica. Severo su entrambi i fronti: il terrorismo rosso, feroce nel suo accanimento su magistrati, carabinieri, poliziotti, riformisti, capisquadra, financo operai; e il terrorismo nero, di cui si ricordano nei dettagli le stragi, con i successivi depistaggi che non si possono attribuire ai consueti «settori deviati dei servizi segreti», perché a volte furono responsabilità proprio dei capi dei servizi segreti. Ma l’aspetto forse più interessante del libro è legato all’evoluzione del costume italiano.
Non a caso il lavoro di Gotor si apre sulla scena musicale e cinematografica. L’Italia uscita dal boom economico è percorsa da tensioni che emergono in modo esplicito in film come I pugni in tasca di Marco Bellocchio e Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, ma anche in modo più sfumato in canzoni come Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli – «Ognuno ha il diritto di vivere come può» – e C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones di Gianni Morandi.
Da questi segni dei tempi Gotor deduce che «la voglia di esserci e di contare si mescolava con un’ansia incerta ma pungente di ribellione, che contestava i valori perbenisti e i modelli di vita borghesi respirati fino a quel momento in famiglia, a scuola, all’università, nei rapporti con la religione e l’autorità costituita». La reazione preparava già la sua risposta: è del 1965 il convegno all’Hotel Parco dei Principi di Roma dedicato alla «Guerra rivoluzionaria», ispirato all’idea che il comunismo fosse all’offensiva in tutto il mondo, Italia compresa, e quindi occorresse una manovra di intelligence, aperta alla manovalanza neofascista ma guidata da menti filoatlantiche, in grado di provocare una svolta autoritaria. È l’inizio della strategia della tensione, che insanguinerà la prima metà degli anni Settanta (con il colpo di coda della strage della stazione di Bologna); mentre nella seconda metà del decennio imperverserà il terrorismo rosso.
Sullo sfondo, un’Italia piccolo borghese, spaventata dalle novità, incredula di fronte alla violenza, pronta a rifugiarsi dietro lo scudo democristiano ma nello stesso tempo insoddisfatta del presente. Un’Italia che acutamente Gotor mette in scena sin dalle prime pagine, attraverso le lettere a Gigliola Cinquetti, giovanissima vincitrice del festival di Sanremo del 1964 con una canzone rassicurante fin dal titolo, Non ho l’età. Molti scrivono alla «candida Gigliola» sovrapponendo «di sovente l’esile figura della cantante bambina alla Madonna», ma anche alla Lucia dei Promessi Sposi. Una ragazza di Novara spiega di identificarsi in lei e di essere «un tipo un po’ all’antica, che non indosserebbe mai una minigonna e non si innamorerebbe mai di un capellone». Una tredicenne di Nuoro si raccomanda di «non fare come Rita Paone (sic) e Mina». Un anziano signore di Roma celebra la sua vittoria «contro la degenerazione dell’arte musicale e canora imperante in questo avvilente dopoguerra» e contro le «molteplici aberrazioni dell’odierna squinternata gioventù». Ma ancora più significativa la lettera di Lena da Boves, provincia di Cuneo, che apprezza la grazia di Gigliola e la sua «buona educazione», «cose molto rare in questi tempi di dinamismo».
Attorno a quella allocuzione e al paradossale significato che Lena da Boves le attribuisce – «dinamismo» come disvalore – Gotor costruisce la sua avvincente narrazione, che dura 450 pagine senza annoiare mai proprio perché ancorata a questo concetto chiave: l’Italia degli Anni Settanta appare spaventata da sé stessa, dai cambiamenti troppo repentini, dai rischi di guerra civile, dallo sviluppo impetuoso dell’era industriale con le sue conseguenze drammatiche – lo sradicamento dei giovani meridionali, le nubi tossiche, la conflittualità sociale, la tentazione del partito armato —; eppure quell’Italia seppe evitare il peggio, salvando la democrazia, la libertà, e anche un’idea – per quanto confusa e contraddittoria – di progresso.