Corriere della Sera, 13 dicembre 2022
Il carteggio di Buzzati con i Mondadori
La prima è del 9 settembre 1940. La spedisce a Dino Buzzati Arnoldo Mondadori in persona, felice di avere finalmente fatto la sua «conoscenza fisica». L’ultima è dell’1 febbraio 1972, scritta non dallo scrittore, scomparso pochi giorni prima, il 28 gennaio, ma dalla moglie Almerina, che ringrazia Alberto Mondadori, figlio dell’editore milanese, per la sincera amicizia dimostrata a «Dino» durante il lungo periodo in cui fu il suo punto di riferimento all’interno della Casa. Nei poco più dei 31 anni che separano queste due lettere, Dino Buzzati – di cui si sta concludendo il cinquantesimo anno dalla scomparsa – pubblica il corpus principale delle sue opere, 13 libri (riedizioni escluse) che lo consacrano autore di successo, apprezzato e tradotto in tutto il mondo, e lo portano a instaurare con la Mondadori un sodalizio così stretto e profondo che non si sarebbe spezzato nemmeno con la sua morte, proseguendo ancora oggi. Lo racconta bene il carteggio editoriale Il romanzo, «la stessa mia vita» curato per la Fondazione Mondadori da Angelo Colombo, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Besançon, in Francia. Un lavoro prezioso che non soltanto svela il dietro le quinte editoriale di best seller come Sessanta racconti, Un amore, Poema a fumetti... dalla nascita alla promozione, dalle copie stampate alle vendite, ma accende anche una luce sul rapporto professionale e personale, fatto di reciproca stima, fiducia e di qualche contrasto, tra uno dei grandi autori italiani del Novecento e il suo editore.
Buzzati non approda subito alla Mondadori. I primi due romanzi li affida ai tipi Treves-Treccani-Tumminelli, poi Leo Longanesi lo chiama alla Rizzoli per pubblicare Il deserto dei Tartari nella neonata collana Il sofà delle Muse. Ma passano appena tre mesi dall’uscita (il 9 giugno 1940) di quello che diventerà il suo romanzo più famoso, che Arnoldo Mondadori gli chiede di entrare nella sua «famiglia di scrittori», di poterlo cioè «annoverare fra gli autori graditi e cari alla Casa (…) autori nuovissimi che ho raccolto e conto di raccogliere intorno a me». Buzzati, che desiderava fare la sua conoscenza da tempo, accetta. E da quel momento diventa uno dei suoi scrittori di punta, un nome su cui investire.
Nei primi tre anni i rapporti li tiene il fondatore stesso – che Buzzati chiama via via «Chiarissimo Commendatore», «Chiarissimo Dottor Mondadori», «Illustre Commendatore», senza mai, come pure l’interlocutore, passare dal lei al tu: poco più di una decina tra lettere e telegrammi dedicati ai contratti, ai rapporti con gli altri editori, a libri da mettere in cantiere, a congratulazioni. Assai più numerose, e vero cuore del carteggio, quelle con il figlio Alberto, che segue Buzzati da quando assume la carica di direttore editoriale a quando, fondata la propria casa editrice, il Saggiatore, lo affiderà alle cure di Vittorio Sereni. Con lui, di otto anni più giovane, lo scrittore bellunese ha un rapporto più diretto, meno formale che con «il Presidente». Più schietto. Può parlare di nuovi progetti (che minaccia di dare ad altri editori se l’attesa si fa troppo lunga), sollecitare le ristampe, suggerire libri altrui, parlare di percentuali e prezzi di vendita, di titoli e copertine. Può lamentarsi e arrabbiarsi, svelando, dietro la sua proverbiale timidezza, una durezza inaspettata. Come nel febbraio 1961, quando, palesemente irritato, scrive ad Alberto una lettera severa, l’unica così polemica; «una lettera di mugugno» nella quale elenca e motiva le ragioni della suo scontento: «Ritardo nella ristampa del Grande ritratto»; «Scarso lancio del libro»; «Disinteresse dell’editore verso di me»; «Assurdità del contratto». I contrasti verranno superati, ma, sospetta il curatore Colombo, quell’anno Buzzati (per ripicca?) non segnalerà nelle strenne di Natale alcun titolo mondadoriano, dando invece spazio a editori concorrenti, persino stranieri.
Ma con Alberto può anche, raramente, confidarsi: come quando, nel gennaio 1963, gli parla del suo romanzo Un amore: «Credo di avere fatto, non ridere, una cosa indiscutibile per la forza della verità e del dolore. Al punto in cui sono giunto, all’età che ho, questa, mi rendo conto benissimo, è la prova decisiva. O ci riesco in pieno, oppure sono morto per sempre. (…) Esattamente come il Deserto dei Tartari questo libro è la stessa mia vita. (…) Stavolta ti chiedo, vi chiedo, un lancio strepitoso. Se avverrà il quale, sono pronto a scommettere che passerete di volata le cinquantamila copie». Strepitoso sarà il lancio, strepitoso il successo che supererà le previsioni dell’autore.
Da questo carteggio – che fa riflettere anche sui tempi che regolavano allora i rapporti epistolari autore-editore: spesso passavano settimane, mesi tra una lettera e la sua risposta, cosa impensabile oggi —, emerge così anche un Dino Buzzati agente di sé stesso, di cui Arnoldo Mondadori intuisce subito il talento e le potenzialità e che la sua Casa cercherà di soddisfare in ogni richiesta; un autore bene informato sulle questioni di stampa, di diffusione e tiratura, e che, se non pienamente consapevole delle proprie capacità, è però sicuro del valore delle proprie opere. Uno scrittore – e un uomo – che sa essere sincero, affettuoso, duro, riconoscente, lucido. Senza mai perdere l’ironia. Come quando prega che gli vengano mandati al più presto i soldi del rendiconto semestrale per i diritti d’autore «perché sono carico di debiti e gli esercenti non mi fanno più credito», o come quando confida ad Alberto Mondadori le ragioni del suo rifiuto a intervenire in un incontro pubblico: «Le conferenze io non le posso soffrire».