Corriere della Sera, 12 dicembre 2022
Ancora sul libro di Citati
Sono oltre quattro mesi da quando Pietro Citati ci ha lasciati per andare a vedere che cosa c’è dall’altra parte, e sembra che sia trascorso tantissimo tempo; un secolo. Anche perché, con la sua scomparsa, davvero è un’epoca che si chiude. In Italia, perlomeno. Come racconta lui stesso nel capitolo dedicato alla lettura – uno dei più belli fra quelli che compongono La ragazza dagli occhi d’oro, una raccolta di articoli apparsi sul «Corriere» e su «Repubblica» – le mura inaccessibili che delimitano quell’altra parte, vuoi che siano fatte di cristallo, di fuoco incandescente, di pietra antichissima, o di nulla, Citati le ha tenute sotto assedio per tutta la vita. Seduto sempre nella medesima poltrona, appositamente costruita per leggere e scrivere preservando per quanto possibile la spina dorsale, a Roma nello studio fasciato di libri in via Lutezia, trasportata in Liguria, a Torino o nella campagna maremmana dove faceva la sua lunga villeggiatura, questo signore apparentemente altero e burbero, non ha fatto altro che leggere, leggere e leggere, senza stancarsi mai. «Se penso alla mia vita – scrive – e ai miei quasi novant’anni, non posso che esaltare la lettura. Ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito, che inseguivo, e inseguivo, e fallivo continuamente nell’inseguire».
L’aspirazione all’infinito, insieme al suo fallimento, ne La ragazza dagli occhi d’oro, è ovunque: nella mistica e nella teologia, nella memoria delle Muse e nella realtà della vita quotidiana, nella Teogonia e nel romanzo. Nell’ultimo capitolo dei Nomi divini, Dionigi l’Areopagita scrive: «La teologia mistica è irrazionale e folle, una sapienza insensata che eccede coloro che la celebrano». Dunque, aggiunge Citati, la mistica è insensatezza e fallimento. Ma è da questo terribile fallimento che «dipende tutta la profondità e l’intensità della nostra vita spirituale». Nel Compendio della vita di Gesù – in pagine che François-René Chateaubriand definiva «spaventose» tanto era lo sgomento che gli provocavano nel petto, e Citati, considerandole anche meravigliose, seduto sulla sua poltrona anatomica non finiva mai di rileggere – Blaise Pascal, come Giacomo Leopardi, esprime un dilemma definitivo: «Quando considero la corta durata della mia vita, assorbita nell’eternità precedente e seguente, il piccolo spazio che riempio e persino che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e mi ignorano, mi spaventa, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c’è ragione per cui io sia qui piuttosto che là, perché adesso piuttosto che poi. Chi mi ci ha messo? Per ordine di chi, questo luogo e questo tempo è stato destinato a me?». È il dilemma dell’eternità e del tempo, del punto e dell’infinito, dal cui Seneca, nella Vita felice, consiglia Lucilio di distogliersi se non vuole cadere nella disperazione: «La natura vuole il limite e la misura: ciò che essa chiede è facile, prossimo, alla nostra portata. Se vogliamo accrescere il suo spazio, cadiamo nell’imperfezione. La natura esige pazienza: non la pazienza a cui ci costringono il dolore o lo sforzo, ma quella che ispira la gioia. Non dobbiamo rincorrere la grandezza, ma il giusto mezzo: accettare, tollerare, obbedire agli dèi, acquistando così la libertà suprema».
Era disposto, Honoré de Balzac, ad accettare il limite e la misura, a non accrescere all’infinito lo spazio della tumultuosa Parigi ottocentesca, e però colmandolo con il Tutto, non lasciando il minimo vuoto, il minimo spiraglio alla fuga dal reale e alla immaginazione, fino a far diventare la Comédie humaine una sublime prigione? In Balzac – scrive Citati – «questo grosso bambino gonfio di genio e di vanità», adorato da Charles Baudelaire, cannibale della realtà che vorrebbe ingoiare, insaziabile nella ricerca dell’assoluto, non c’è mai un’omissione.
Le sue convinzioni
Chi non ama Dickens non ama neppure il romanzo e «Cime tempestose» di Emily Brontë supera tutti
Balzac non è felice se non trascrive il minimo oggetto; se non rappresenta ogni condizione sociale; ogni albergo lussuoso o misero di Parigi; i saloni eleganti e le soffitte; le locande modeste e i ristoranti pretenziosi nei quali le cortigiane d’alto bordo tendono tranelli ingozzandosi di ostriche e fagiani, bevendo soltanto champagne; se non fa i nomi dei sarti e dei profumieri; se non entra nelle vecchie e nelle nuove tipografie; se non illustra il codice commerciale; quello delle cambiali e dei brevetti. «Da Tolstoj a Kafka – sostiene Citati – il romanzo moderno che ama l’omissione, non è che una cosciente, grandiosa ribellione contro Balzac». E pure contro Charles Dickens, allora, che a Londra penetra in ogni bettola e in ogni palazzo, di Londra conosce ogni vicolo e ogni centimetro quadrato, considera Londra il mondo al di fuori del quale non c’è nient’altro? Henry James, prima, e T.S. Eliot in aggiunta, scrissero di lui come «del più grande dei romanzieri superficiali (James). Tipica delle condizioni fondamentali del suo genio è quella di non vedere oltre la superficie delle cose». E Eliot: «Dickens riesce di rado a passare dall’aspetto cronachistico ed esterno delle cose a quello emotivo e tragico». Che sciocchezza, mette in guardia Citati, per il quale chi non ama Dickens «non ama nemmeno il romanzo» e compie un peccato mortale: «Senza la lettura di Dickens non possiamo capire né Dostoevskij né Tolstoj né Joyce né Kafka e nemmeno Dylan Thomas. Tutti scorsero in Dickens un grande specchio – uno di quegli specchi esagerati, incrinati e velati, che talvolta si trovano nelle vecchie soffitte. Nessuno conobbe il suo fiducioso candore, e nessuno fu più allucinato. Nessuno raccontò come lui la vita colorata e felice. E nessuno si inoltrò ogni giorno con tale fervore nel regno delle tenebre».
Le tenebre che, come una gigantesca omissione, sottostanno alla vita «superficiale» di tutti i romanzi di Dickens, sono il regno di Cime tempestose, il romanzo di Emily Brontë che Citati considera superiore a ogni altro, a cominciare dai Promessi sposi. Le tenebre, nel romanzo più violento e disperato mai scritto da una donna – e da un uomo – si incarnano nel Male; e il male si incarna in Heathcliff, il «bastardo» di cui Catherine si innamora ferocemente e poi, pur continuando ferocemente ad amarlo, ripudia. Ma il Male, dice Citati, «l’unico assoluto che i personaggi e i lettori di Cime tempestose conoscono, non si può comprendere. È un enigma, il più profondo e oscuro degli enigmi».