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 2022  dicembre 11 Domenica calendario

Intervista a Zerocalcare

Il carcere «da abolire», la sinistra, le decisioni del governo «che non mi stupiscono: era tutto già molto chiaro prima del voto». Parte dalla sua ultima storia intitolata La voragine la chiacchierata con Michele Rech, il fumettista Zerocalcare, per arrivare alla guerra e alle «cicatrici mai rimarginate» nelle relazioni tra persone dopo il Covid.
La premessa di quel fumetto è: se critichi il 41 bis ti danno dell’amico dei mafiosi.
«È quello che mi sta succedendo da 48 ore».
Parliamone seriamente, invece. Ne La voragine parte dal caso di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41 bis, per fare una critica più generale al carcere…
«Sono molto critico verso il carcere in sé: non conosco nessuno che sia uscito migliore di come ci è entrato».
Le faccio l’obiezione più ovvia: e con chi è socialmente pericoloso, cosa si fa?
«Non credo che il carcere si abolisca da oggi a domani e non ho la soluzione in mano. Ma penso bisognerebbe aprire una discussione».
Il carcere duro l’ha voluto Giovanni Falcone, e molti addetti ai lavori dicono che sia l’unica cosa che spaventa i mafiosi.
«Non mi pare abbia funzionato e trovo sbagliata l’idea che si possa combattere la mafia con più prigione e non aggredendo le condizioni in cui la mafia prospera. Se l’unico criterio è l’efficienza, allora che vi devo dire, spariamo direttamente alle persone, togliamo pure l’ipocrisia di mantenerle in vita…».
Uno dei primi provvedimenti del governo è stato a favore dell’ergastolo ostativo. Che impressione le ha fatto?
«Non mi ha stupito per niente. Questo governo è stato eletto senza nascondere il suo bagaglio culturale. Sul tema carcere, invece, è la cultura politica di sinistra che è stata distrutta negli ultimi decenni».
Cosa intende?
«Da Mani pulite in poi ha vissuto il carcere come una rivalsa verso i corrotti. Anziché muovere una critica, lo ha visto come uno strumento di risoluzione dei problemi».
Lei è di sinistra?
«Credo nei principi di uguaglianza, giustizia sociale e solidarietà che in teoria dovrebbero appartenere alla sinistra».
Ha un partito di riferimento?
«No».
Il 25 settembre ci è andato a votare?
«Ho fatto la fila e sono entrato nella cabina elettorale».
Subito dopo le elezioni ha lanciato la mostra che aprirà sabato a Milano, Dopo il botto: qual è il botto?
«Le elezioni non sono state il botto, ma una parte di quel domino che casca un pezzo dopo l’altro. Uno degli asteroidi è stato il Covid, nell’impatto che ha avuto nelle relazioni tra le persone: si sono chiuse in casa, formandosi un’opinione su Internet, lì dove si formano le idee più radicali. Si sono create delle Jihad reciproche: tu sei un servo dello Stato! Tu sei un untore! E questa è la cifra con cui da quel momento leggiamo la realtà: vale per la guerra, per la politica».
Sulla guerra c’è una spaccatura netta.
«Tra fronti che si accusano a vicenda: guerrafondaio! Finto pacifista! È il segno che è impossibile trovare una sintesi».
Lei come la vede?
«Si sta colpendo la popolazione civile, e in questa situazione l’unica cosa che per me non apre un dilemma etico è il dovere dell’accoglienza, di cui bisogna farsi carico il più possibile».
E sull’invio di armi cosa ne pensa?
«Non ho certezze, ho solo dubbi. Il dubbio che si possano consegnare armi anche a formazioni neonaziste, in collegamento con altre formazioni simili europee, e trovarsi un domani con una estrema destra armata».
Quindi vanno mandate o no?
«Non ho una risposta a questa domanda dal giorno uno della guerra».
Anche nella politica, lei dice: l’unica cifra è scagliarsi uno contro l’altro.
«Le opinioni sono estremamente polarizzate. Anche in campagna elettorale si è visto».
In questo hanno un ruolo i social, non trova?
«Certo. E purtroppo in pandemia sono diventati quasi l’unico strumento di confronto».
Come le sembra il governo?
«Giorgia Meloni è molto chiara, è la rappresentante di una compagine politica che da 80 anni aspettava questo momento. I riferimenti sono sempre quelli del post Ventennio. È come se fosse arrivata al potere la famiglia dell’Msi di Roma: più o meno edulcorati, ma i contenuti sono quelli».
E l’opposizione?
«Non ne vedo molta ma non mi sorprende».
Sta seguendo il congresso del Pd?
«Leggo cose, ma è molto distante da me».
Elly Schlein non potrebbe parlare a chi appartiene a una sinistra come quella di cui lei si sente parte?
«Non credo in generale alle figure salvifiche. La politica è un’esperienza collettiva, e le esperienze più avanzate che conosco oggi non passano attraverso i partiti».
Inutile cercare figure salvifiche, dice lei: l’errore che la sinistra ha fatto con Aboubakar Soumahoro?
«Io penso solo che o hai alle spalle qualcosa di collettivo di cui sei megafono, oppure è un esercizio non proficuo».
Lei è un megafono di un certo mondo?
«No, in alcuni percorsi sono stato l’anello terminale, con i miei disegni, di una esperienza pensata collettivamente. Ma non rappresento nulla e nessuno».
Che impressione le fanno le proteste in corso in Iran?
«Ci possono essere mille chiavi di lettura: la mia è il Kurdistan. La prima vittima, Mahsa Amini, era curda. Lo slogan "Vita, donna, libertà", viene dal Movimento di liberazione curdo. Il fatto di avere accanto il Rojava, dove le donne hanno ruoli apicali nella società, penso abbia un’influenza sulla cultura del Paese. È il risultato anche di una rivoluzione collettiva che viene fatta a pochi chilometri da lì».