La Stampa, 11 dicembre 2022
Le parole di Gadda
Ogni santa volta, in un bar, assistiamo alla scena di un uomo che ordina da bere, ingolla la sua minerale, paga e se ne va. Niente di particolare. Leggiamo però la stessa situazione descritta da Carlo Emilio Gadda: «A gazzosa ingerita, quando il relativo gaz, come suole, gli era vaporato fuora di ritorno in quella specie di criptorutto nasativo che tien dietro a un beveramento del genere, ecco, il milite aveva sbottonato la giubba, l’aveva aperta a un tantino di comodità e di respiro: e una polpettuola n’era stata estratta, enfiata in carte più che imbottita pagnottella di salumi: un portafoglio marcio: organo indispensabile, al sudato e al misero, per effettuare il laborioso pagamento di una “bibita"».Gadda è preciso, in un sol gesto è compassionevole e disprezzante, e tutto questo per diventare, infine, filosofico. Non c’è momento della vita che sfugga al suo sguardo e non c’è suo sguardo che non si risolva in una prosa capace, fino all’ultimo sforzo, entrando in ogni meandro del reale, di dare logos a ciò che altrimenti resterebbe come frustrato, non integrato, rimosso e quindi pericolosissimo, dinamitardo: il soldato misero e sudato, la divisa stretta come se dovesse avvertire il suo proprietario, tramite una stretta, di un imminente fulmine cardiovascolare, il portafoglio gonfio di carte peggio di un panino imbottito col salame (ritratto del soldato stesso e, se volete, sua cartella clinica), il ruttino, il conforto pagatissimo di una bibita; istante di ebbrezza rubato al mestiere di uccidere.Per ottenere questi effetti, Gadda ha bisogno di due qualità. Una interna e l’altra esterna. Quella interna è una visione del mondo, una sofferenza esistenziale. Quella esterna (diciamo così) è la conoscenza pratica di innumerevoli parole da usare per esprimere bene ciò che la qualità interna, come divinità irrequieta, esige e pretende.Da questo punto di vista il Gaddabolario, duecentodiciannove parole dell’Ingegnere"(Carocci editore) a cura della formidabile gaddiana Paola Italia non è soltanto un dizionario con molti dei vocaboli più stupefacenti usati nell’opera di Gadda, ma è anche l’occasione per catturare, a volo di condor, il pensiero di un grande filosofo del Novecento.Carlo Emilio Gadda fu infatti ingegnere, ma fu anche filosofo: filosofo laureato sì, ma di una specie ormai rarissima, di tipo sciamanico siberiano o, meglio ancora, di tipo indiano, cioè quella specie di filosofo che parte sempre da un’esperienza sconvolgente che gli impone, poi, nei momenti di tregua, di dare forma concettuale e verbale proprio a quella numinosa vissutezza.Fu dalla morte del fratello in guerra, fu dalla guerra, fu dai fallimenti economici del padre (investì in bachi da seta), fu dal dolore della madre (per l’una e per l’altra cosa) e fu dalla scomparsa del suo cane di nome Puk che noi possiamo partecipare a quell’esperienza filosofica, incipit di ogni cosa.Questo è per esempio un brano di uno dei suoi primi racconti, siamo nel 1926, e descrive proprio la morte del suo cucciolo: «Quel suo occhio diceva: “Kant ha ragione”. Diedri e prismi, luci ed ombre e colori vanivano: le cosiddette mosche avevano lasciato ogni paura. Eppure con che rabbia, con che prontezza le sapea prendere al volo! Poi starnutava. Adesso moriva: ossia capiva che la rabbia, i prismi, i rumori sospetti e la luce stessa e tutto non erano se non un catalogo vano”.Puk è trattato come il milite di cui sopra: vediamo un cane che faceva il cane, che acchiappava le mosche e che veniva rapito da ogni luce e ombra e che, ora che è morto, non può più farlo. Semplice. Ma Gadda riconosce l’abisso in ciò che è abituale: la morte ci libera dalla rappresentazione, squarcia il velo di Maya, ma al di là di questo straccio non v’è nulla se non, per chi rimane dentro l’illusione, lo sberleffo di una mosca che può finalmente passeggiare sul corpo inerte di un Fido entusiasta e fratello nostro che, come noi, aveva ceduto al gran catalogo esuberante del mondo.La filosofia di Gadda è tutta dentro, tecnicamente parlando, questo cinismo. Anche in un cane si manifesta la vanità del mondo. Ma questa rivelazione è il solito buco nell’acqua; dura quel che dura. Quasi immediatamente, il gomitolo della vita, come quel carosello di mosche che ronza intorno al fu Puk, torna infatti a ordire le sue trame. E Gadda prosegue: «Adesso moriva: ossia tutto perdeva, per lui il significato di quando era nato e cresciuto. Altri si sarebbero occupati delle diverse faccende, che erano in corso, interpretando le cose secondo schemi convenzionali».Al diavolo quegli schemi convenzionali, ci dice Gadda. Al diavolo quella stupidità invereconda che pasteggia sul gran casino barocco della vita. Il mondo è un gorgonzola inestricabile di relazioni e di violenze, di meschinità e di paure, la cui meccanica cresce impazzita e a dismisura, fino a strozzarci; e non c’è, direbbe sempre Gadda, cancherologia che tenga.Durante questa battaglia filosofica, che per Gadda proseguì tutta la vita, perfino i suoi ultimi giorni furono una conferma della sua tesi. E fu quasi un riabbracciare il suo Puk nei suoi giochi: quelle mosche che furono svago di sempre per il suo fratello cane, per l’ingegnere a quel divertimento faceva le veci Alessandro Manzoni.Quando infatti smise di parlare, al capezzale di Gadda si raggomitolarono alcuni amici per leggergli qualche pagina dei Promessi sposi.«Mi ricordo – scriveva Pietro Citati – di avergli letto la scena con il guazzabuglio notturno, con le campane, le campane che suonavano nel paese di Renzo e Lucia. Era beato, capiva tutto».