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 2022  dicembre 11 Domenica calendario

Ancora sul Marocco

La signora Boufal balla in mezzo al campo e il figlio Sofiane la fa volteggiare, velata e beata dentro un momento di storia che è un muro che cade. Si sente e si vede, come fosse il cemento di Berlino che viene giù nel 1989 e qui non ci sono calcinacci che cedono e regimi che implodono, ma pregiudizi che si sgretolano sotto i piedi del Marocco danzante.La prima squadra africana in semifinale ai Mondiali, il primo tecnico arabo che arriva tanto in alto e i giocatori che pregano con le schiene lunghe sotto una curva in lacrime dopo la vittoria contro il Portogallo. E le mamme felici, commosse, decisive. Hanno pulito le strade, le scale, hanno servito in mensa e lavato i corridoi degli ospedali, hanno aspettato di essere incluse e in poche ci sono riuscite, hanno protetto la famiglia dalle cattive compagnie e ora sono le facce destinate a cambiare la percezione del calcio, del tifo e quindi di un pezzo piuttosto significativo di vita.Succede con queste donne con il capo coperto e con queste preghiere portate fuori dalla moschea, ma soprattutto con un gruppo riunito dalla diaspora per giocare a pallone, grazie al talento ripescato da ogni dove, con 14 uomini della rosa nati fuori dal Marocco e proprio per questo decisi a rappresentare più un’identità di un confine. Motivati a sorprendere e a inserire un vocabolario più largo nelle sfide declinate sempre con le stesse parole. Non tutte vanno bene in eterno.C’è un tifo che non si è mai sentito riconosciuto e fatica a trovare voce o appartenenza. Un tifo imbarazzato che da oggi si sentirà legittimato a essere parte del gioco. Non solo a fianco dell’incredibile Marocco, ma di ogni nazione che si porta e si porterà dentro anime diverse.Uno studio britannico, commissionato dall’associazione YouGov, sostiene che più di un terzo delle persone che hanno radici differenti da quelle che caratterizzano il club per cui tifano hanno ricevuto insulti o minacce a sfondo razzista. L’università di Birmingham ne ha tirato fuori un’analisi legata ai musulmani: ne escono come la comunità meno considerata dal pallone e per questo tanti inglesi musulmani innamorati del calcio stanno alla larga dagli stadi. Non trovano aperture, si sentono osservati quando non discriminati. Pochi si sentirebbe a proprio agio con la bandiera di San Giorgio tra le mani e più del 40 per cento di appassionati associa la croce rossa in campo bianco all’islamofobia e alla misoginia. Non ci dovrebbe essere relazione, ma esisterà un motivo se loro la vedono così. Da oggi capiterà un po’ meno perché c’è una squadra che ha portato le minoranze in campo con quelle mamme.La madre di Boufa usciva di casa al mattino alle sei per fare le pulizie e quando il figlio le ha chiesto un anno per capire se poteva diventare «un calciatore vero» lei glielo ha concesso, ha aggiunto i turni di notte. Ora ha al collo una Louis Vuitton e un iPhone e saltella sopra un successo che non si sarebbe mai immaginata di vedere. Come lei Saida Mouh, mamma di Hakimi, ex interista nato a Madrid e oggi al Psg. Altra donna delle pulizie con un figlio milionario. Il ct Walid Regragui ha voluto tutti i parenti al ritiro di Doha, compresi i suoi e pure lui ha stretto tra le mani la testa della madre coperta dalla hijab per dire grazie. Prima di giocare contro il Portogallo ha spiegato perché è il solo tecnico arabo qui: «Il calcio che conta non ci considera degni, pensa che non siamo capaci, che non siamo pronti». Dopo il passaggio del turno ha continuato, calmo, con un sorriso compiaciuto: «Sento parlare di miracolo. Non abbiamo perso mai, abbiamo preso un solo gol, abbiamo battuto Belgio, Spagna, Portogallo. Non abbiamo pescato il numero buono, abbiamo lavorato».A vedere il percorso fatto in Qatar pare di leggere anni a ritroso, faide che si sciolgono, come se in ogni partita si fosse grattato via un pezzo di colonialismo e non è certo colpa di chi ha giocato contro il Marocco, ma di un’attesa infinita che per forza adesso rimette tutto in circolo. Un bagaglio di secoli.Hanno battuto il Belgio che fa ogni giorno i conti con i danni lasciati alle spalle e basta guardare i tanti quartieri come quello di Molenbeek, a Bruxelles, associato al terrorismo per ovvi motivi e oggi in strada a festeggiare, felice di mostrarsi diverso da come viene considerato. Trascinato dall’orgoglio. Poi la Spagna e le dispute tra cristiani e musulmani arrivate fino all’occupazione di inizio Novecento, con territori ancora oggi in bilico tra i governi. E il Portogallo che ha invaso il Nord Africa nel 1415 e ci è rimasto per centinaia di anni in un tira e molla che ha fratturato ogni angolo del Paese. Pezzi di terra trasformati in protettorati, tanti passaggi da garantire che pure in semifinale il Marocco srotolerà vecchie mappe. Non segnano più luoghi reali ma hanno lasciato in eredità visioni logore.Al gol di Youssef En-Nesyri si sono alzati in piedi algerini e afghani, somali, etiopi, giordani. Questo Marocco è un incrocio di fedi e sentimenti, massaggia le frustrazioni, libera gesti che prima di ora non si sono mai visti nella competizione più seguita al mondo.Aboukhlal e Benoun prima di entrare si mettono a recitare una preghiera, la «dua» una invocazione a dio, una supplica. Il calcio non ne ha bisogno, è di suo una fede declinata da ognuno. I credi sono questione privata, in uno stadio si parla d’altro, ma prima di sentirsi uguali bisogna poter essere liberi, accettati, veri. I tifosi musulmani non ci sono mai riusciti, non avevano giocatori con le magliette «figli di Gesù» come i sudamericani, non avevano crocefissi e medaglie dei santi da baciare come diversi allenatori italiani. Adesso che sono stati islamici dentro uno stadio possono essere tifosi e basta. Adesso che il Marocco fa ballare le mamme e culla tutte le patrie che ha, coccola ogni città dove abita un pezzo del suo cuore: da Tangeri a Torino.