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 2022  dicembre 11 Domenica calendario

Il Marocco e i suoi colonizzatori

Una spinta così forte non si era mai sentita, un’ondata così irresistibile non si era mai vista su un campo di calcio. Metà San Paolo nel 1990 tifava Argentina. Nel 2014 il Mineirao smise presto di sostenere il Brasile travolto dalla Germania e si divise tra lacrime e dileggio.

Ieri tutto lo stadio Al Thumama, un impianto senza storia costruito nel deserto, era graniticamente dalla parte del Marocco. E fuori dallo stadio a spingere la squadra c’era una comunità, c’era un universo.

Il Marocco e il Qatar sono le due estremità della mezzaluna islamica che dominò la parte di mondo compresa tra il Golfo Persico e le Colonne d’Ercole. Tra Rabat e Doha ci sono settemila chilometri, otto ore di volo, 90 ore di auto. Eppure non soltanto il Qatar è pieno di tifosi e di immigrati marocchini; dietro la prima squadra africana ad arrivare alla semifinale dei Mondiali c’è un movimento che va oltre la nazionalità e persino oltre la fede. Non è solo orgoglio religioso: la Turchia semifinalista nel 2002 non aveva suscitato la stessa emozione. È, nei fatti e non nella retorica, il riscatto del lavoratore povero, spesso umiliato sia dall’emirato oscurantista sia dall’Occidente tollerante. È la rivalsa di un mondo che veniva definito Terzo, e considerato dalle grandi potenze terra di conquista e di scambio. È anche la rivincita del colonizzato sul colonizzatore: i marocchini hanno eliminato prima gli spagnoli, con cui i loro predecessori avevano combattuto per più di mille anni, dal tempo di Santiago Matamoros, poi i portoghesi, che persero il loro re e la loro indipendenza nel tentativo vano di conquistare il Marocco; e siccome il corpo del re Sebastiano non fu mai trovato, nacquero la leggenda che non fosse morto e il mito messianico del sebastianismo, dell’attesa di un liberatore e di un riscatto, esportato pure in Brasile, dove in queste ore è più attuale che mai. Ora in semifinale il Marocco troverà i suoi più recenti padroni, i francesi del maresciallo Lyautey, che a Parigi riposa accanto a Napoleone, in una tomba degna di Achille.

Colpisce però che la squadra e i suoi tifosi esprimano uno spirito di rivalsa, non di vendetta. Siano animati dall’energia, non dalla rabbia. Nel Mondiale in terra araba hanno trovato un’atmosfera e una motivazione che hanno trasformato una buona squadra in una legione capace di tener testa a chiunque.

Le tappe del percorso sono state scandite da festeggiamenti in tutto il mondo, Italia compresa. I luoghi vanno sempre rispettati; ieri a Milano c’è stata una rissa, con un ragazzo accoltellato; ma non è certo meno grave l’aggressione razzista che i marocchini hanno subito a Verona per mano di incappucciati armati di catene (e attendiamo che Salvini condanni pure quella, dopo aver condannato i fumogeni). Anche a Bruxelles è accaduto qualcosa di preoccupante: i figli degli immigrati hanno festeggiato in modo violento la vittoria sui belgi, mostrando di sentirsi esuli marocchini, non nuovi europei.

Il calcio non è mai solo un fatto tecnico, anche se senza Amrabat e Hakimi, senza il pressing e la velocità, senza gli schemi del c.t. Regragui e lo stacco di En-Nesyri nulla sarebbe stato possibile. E il calcio non è mai solo festa; ad esempio, se è bello guardare bandiere che ricordano al mondo la causa palestinese, non per questo sono accettabili i segni di ostilità verso Israele, che resta l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma il calcio, almeno quello dei Mondiali, è sempre una storia che ci riguarda. Anche se l’Italia non c’è. Dettaglio doloroso; che però consente anche a noi di tifare Marocco.