La Stampa, 10 dicembre 2022
Pupi Avati e il Natale
Pupi Avati, il Natale, lo ha usato come sfondo dei suoi film sull’ossessione. Succede in molte famiglie, di nascosto da molte famiglie, quello che ha raccontato in Rivincita di Natale, un film del 1986, uno dei suoi più amati: i maschi filano via, scappano in silenzio, nella notte di vigilia, e si ritrovano con i loro amici, e giocano a poker per ore, fino al mattino, e qualche volta succede che ritornino a casa con un enorme guaio sul groppone. «Nella mia educazione, cattolica preconciliare e contadina, il Natale era considerata la festa più sacra e più santa dell’anno: ambientarci storie atroci di tradimenti, inimicizia, egoismo e violenza reciproca aveva per me una valenza particolare. Questi esseri umani che si giocavano il patrimonio della loro vita attorno a un tavolo da poker proprio nella notte in cui Gesù Bambino viene al mondo, ecco, compivano qualcosa di totalmente sacrilego».
Ma lei rispetta il Natale.
«Lo rispetto, lo attendo e lo celebro. Il periodo più felice della mia vita è coinciso con l’infanzia dei miei figli, che lo aspettavano con una eccitazione che nient’altro era capace di procurargli».
E adesso?
«E adesso partecipo di meno ai preparativi, l’albero non lo faccio più io, lo fanno i miei nipotini, ma tengo che le ritualità vengano rispettate, anche quelle che sono state dimenticate, che si sono perse nel tempo. Quando ero bambino io il presepe era molto più importante dell’albero, e quindi il Natale era per me innanzitutto una festa santa: gioiosa, ma santa. Facevamo la processione in casa. Non dimenticherò mai quando, eravamo tutti nascosti in campagna, c’era la guerra, avevo cinque o sei anni, e non avevamo i pupi per fare il presepe, ma io li chiedevo con grande insistenza: pur di farmi contento, mio padre e mio nonno si incamminarono, al freddo, di notte, con il rischio di venire ammazzati dai tedeschi, e andarono a Bologna a comprarmi la Madonna, San Giuseppe, Gesù Bambino, il bue e l’asinello».
Ha un ricordo altrettanto prezioso dell’albero?
«Mi apparteneva di meno, arrivò a un certo punto nella mia vita, appena finì la guerra: lo vedevamo nei film americani e lo facevamo anche noi, ma non avevamo niente per addobbarlo, quindi usavamo i mandarini».
Però nei suoi film, quando racconta il Natale, ci sono più alberi che presepi.
«Perché sono film ambientati negli anni Ottanta e Novanta. Ma il Natale della mia infanzia non l’ho mai raccontato».
E com’era?
«Come deve essere: felice. La festa dell’attesa, della nascita e della ricompensa. Nel calendario dei momenti di gioia della vita di un bambino, il Natale è al primo posto. E per me era un rituale serio, un gioco bellissimo al quale mi prestai fino a quando non mi fu comunicato che Babbo Natale non esisteva. E lo ricordo come un momento di grande infelicità: fui privato dei sogni. So che da quel momento un pezzo della mia felicità e della mia capacità di illudermi si è perso per sempre».
Ha recuperato, da padre?
«Una volta ricordo di avere ecceduto: c’è stato un tempo in cui il mio lavoro mi dava un’idea di onnipotenza e io allora comprai un albero che andava molto oltre il soffitto di casa, lo portarono con un camion, fu un colpo di testa, ma ne ero orgoglioso, mi parve una cosa irripetibile, che naturalmente suscitò l’ira di mia moglie e il disappunto di tutti, tranne che dei miei figli, per i quali la dimensione dell’albero significava anche la dimensione del mio affetto per loro. Trasmisi loro che avevo capito che quella notte, la notte dei doni, per loro era importante».
Cosa risponde a chi dice che il nostro Natale è diventato consumistico?
«Che non è una buona ragione per rinunciare a festeggiarlo. Ne abbiamo bisogno tutti, specie i bambini. Io quando cammino per Roma e la vedo luccicante, vedo il suo fulgore, i festoni, gli alberi ovunque, mi sento felice e spero che i negozianti ne beneficino e sogno che i cinema tornino a riempirsi. Ecco la cosa che più mi manca del Natale passato: le famiglie che, dopo pranzo, andavano al cinema, e le sale erano piene, spesso non ci si stava e si rimaneva in piedi, i bambini si sedevano sulle ginocchia dei genitori, gli adulti facevano a botte per aggiudicarsi una poltrona. Che meraviglia».
Cos’è la famiglia?
«Ho 84 anni: quando devo prendere una decisione, mi domando ancora cosa farebbero mia madre e mio padre. Ecco cos’è».