Robinson, 10 dicembre 2022
Biografia di Cesare Cavalleri raccontata da lui stesso
Come cominciare questo incontro che ha tutto il sapore di un congedo finale? Sono un po’ disorientato e apprensivo davanti a una vita che non mi appartiene, che non è la mia e che sento fuggire. Non si percepisce dolore nella stanza dove Cesare Cavalleri in un letto giace. Gli siedo davanti. Ha mani trasparenti, il volto cereo e una voce stranamente flebile e cristallina. È stato, lo è ancora, direttore della rivista Studi cattolici e della casa editrice Ares. Ha disposto le successioni, come un padre che pensa agli eredi spirituali. Ho letto sul quotidiano Avvenire, testata per la quale collabora fin dall’inizio, il suo congedo e la risposta di Marco Tarquinio. Colpiva l’asciuttezza dell’annuncio. Una morte annunciata e senza fronzoli. Come un’ondata di vento e di sabbia che non ti aspetti. E ora eccomi qui.
Guardo i suoi occhi che si stringono, per mettermi meglio a fuoco.
Come si sente?
«Preparato al grande tuffo. In queste ore, in questi giorni, rivedo la mia vita, soprattutto la mia adolescenza e mi sembra che tutto quello che mi è accaduto acquisti un senso particolare che la memoria impreziosisce. Non si può evitare di morire ed è il motivo per cui morire appartiene al vivere».
Accennava all’adolescenza.
«Sono restato orfano di padre a otto anni e mia madre ha voluto che mi rendessi autonomo il prima possibile. Ero bravo a scuola e la Bnl mi chiamò. Ho lavorato per alcuni anni in banca. Ho studiato Economia e commercio ai corsi serali, laureandomi con una tesi sui processi stocastici».
Roba complicata, ma che c’entra con i suoi perduranti interessi letterari?
«Ero già un lettore avvertito, scrivevo poesie, salvo poi smettere, e mi pareva di poter conciliare le due cose.
Un processo stocastico è un sistema probabilistico.
Mivenne in mente di proporre al docente la frequenza con cui il fonema della doppia zeta compare in Leopardi».
Mi pare un po’ astruso.
«No, in realtà si tratta di una frequenza rara, di qui il mio interesse. Conosce la “Legge di Poisson”?».
Che cos’è?
«È un sistema per misurare, in statistica, il ripetersi di certi eventi rari. Siméon Denise Poisson fu matematico e astronomo di talento. Si occupò anche di statistica e nel 1840, sul finire della vita, elaborò un modello sulla distribuzione rara di certi fenomeni. Interessante».
Ha provato mai ad applicare quel modello alla sua vita?
«Nonostante tutto, la mia è stata un’esistenza regolare. Sono entrato nell’Opus Dei a 22 anni e sono sempre stato fedele. All’inizio ero un po’ incerto. Ero attratto dalle filosofie orientali e il Tao, non ero così sicuro che avrei compiuto il cammino che poi ho fatto».
Si parla spesso di apostolato, anche civile, ma al tempo stesso non sono mancate le critiche da parte di chi definisce l’Opus Dei un potere forte e integralista.
«Ma per carità! Nell’Opera si fa quel che si può con il massimo di libertà».
Ha mai conosciuto Josemaría Escrivá, il fondatore dell’Opera?
«L’ho conosciuto e fu un esempio per tutti noi, allora giovani. La sola cosa che lo turbava erano le illazioni e le bugie che venivano scritte sull’Opera. Ma di tuttoquesto a noi arrivava poco. Sapeva tenerci al riparo dalla tempesta. E quello che ha sempre distinto il lavoro dell’Opera è stata la serietà teologica e la spiritualità attraverso l’impegno personale quotidiano».
Nel nome di quale cattolicesimo?
«La nostra missione è stata quella di non rinchiuderci nel recinto dei cattolici. Un giorno incontrai Escrivá a Roma e mi disse: “mi piace come dirige Studi Cattolici,peccato però il titolo della rivista”. In che senso?, chiesi. Proviamo a fare un discorso non confessionale in una testata confessionale. Altro che integralismo».
Lei era a Roma perché?
«Mi ero trasferito nel 1960, collaboravo a una iniziativa per gli studenti e, per mantenermi, avevo vinto una borsa di studio dell’Istituto Sturzo per un corso di sociologia. C’erano lo storico Gabriele De Rosa, Gaspare Ambrosini che sarebbe diventato il primo presidente della Corte Costituzionale, Antonio Messineo, direttore diCiviltà cattolica e Giuseppe Palladino con cui discussi la tesi sulla “teoria del valore” in Marx. L’anno dopo divenni assistente all’università di Roma di Pietro Onida, padre di Valerio».
Quando prese la direzione di “Studi cattolici”?
«Nel 1965, ero ancora a Roma. La rivista era nata nel 1956. Traferii la redazione a Milano. Anche per sottrarla alle tante influenze che l’entourage romano poteva esercitare».
Voleva farne uno strumento di battaglia.
«Era nel mio spirito intervenire sui problemi che la società, non solo letteraria, viveva».
Vi schieraste contro l’aborto.
«Era nel nostro diritto».
Ma forse non era nel vostro diritto definire l’aborto un omicidio e moralmente responsabile chi ne istigava la pratica.
«Per quell’articolo che scrissi, e che esprimeva una mia profonda convinzione, fui querelato dai radicali e venni assolto dal reato di diffamazione».
Lei è stato una specie di Torquemada della critica.
Le piace così tanto stroncare le opere altrui^
«In un paese dove tutti si conoscono, tutti si frequentano e tutti si recensiscono con favore, mi pareva di essere una piccola eccezione. Lanciare qualche pietra contro la società del narcisismo lo ritengo un atto dovuto. È facile parlare bene di Umberto Eco che è stato un grande semiologo, ma i suoi romanzi non mi hanno mai convinto».
Come definirebbe la stroncatura?
«Una forma di contropotere culturale che nessuno più pratica. Eppure è il modo più rapido per arrivare a delle conclusioni chiare. Il compito della critica è puntare il dito contro un’opera senza provare ad abbracciarla come fosse un parente che si accoglie alla stazione».
Tanta intransigenza le ha procurato scontri anche in redazione, tra i collaboratori.
«Qualcuno veniva, qualcuno andava».
Chi se ne andò infuriato fu Quirino Principe.
«Ah, ma quella decisione non l’ho mai capita. Lui disse che non gli avevo pubblicato un articolo, in realtà non fu così. Trovavo Principe un fuoriclasse, la sua rubrica “Gli imperdonabili” metteva sulla graticola tutta la fuffa cultural-chic di quegli anni. Fu Elémire Zolla a consigliarmi sia Principe che Rodolfo Quadrelli».
Zolla era un po’ fuori dalle traiettorie cattoliche.
«Ma aveva scritto dei libri molto convincenti, a cominciare da Eclissi dell’intellettuale eVolgarità e dolore.Ricordo che lo invitai a tenere alcune conferenze qui a Milano. Allora insegnava a Catania.
Andai a prenderlo all’aeroporto. Ci fermammo a unbar per un caffè. Si guardò intorno come stupito, poi accarezzando il bancone di ottone disse: è tutto così in ordine qui. Sembrava meravigliato. Detto da un apocalittico mi sembrò strano».
Un’altra persona che se ne andò da “Studi cattolici” fu Adriana Zarri.
«Ancora oggi ripubblicherei gli articoli che scrisse per la mia rivista. Quando ci lasciò non feci nessuna tragedia. Capii che era attratta dalle battaglie sociali, parlava di un Dio rivoluzionario, come se davvero Dio dovesse mettersi alla testa dei cortei, e trovai strano, per non dire contraddittorio, che una che si sforzava di comprendere il mondo laico finisse a fare l’eremita».
A proposito di mondo laico, so della sua passione per il Gruppo ’63.
«Ha svecchiato la cultura italiana».
Ma un cattolico come lei, per giunta membro dell’Opus Dei, che c’entrava con quella esperienza?
«Mi affascinava il loro lavoro militante. In fondo non così diverso dal mio. Sapevano puntare il dito contro l’uso banale della scrittura».
Sapevano chi?
«Edoardo Sanguineti, dotato di una intelligenza straordinaria e, nonostante l’aspetto luciferino, una delle persone più gentili che abbia conosciuto. E poi Nanni Balestrini, che apprezzavo per la capacità di lavorare sperimentalmente sulla lingua. Peccato che poi si sia perso nel fumoso estremismo che riassunsenella formula “Vogliamo tutto”. Sì, è vero, ho difeso la neoavanguardia, oltretutto mi fece capire i limiti della mia poesia».
Rinunciò a scrivere poesie perché?
«Non l’ho mai detto, ma se le avesse scritte un altro le avrei stroncate senza misericordia. Come sentenziò Marinetti: “uccidiamo il chiaro di luna!”».
Ha avuto mai la tentazione di scrivere un romanzo?
«Bisogna saper vincere le tentazioni. Mi venne voglia di scriverne uno partendo da un fatto reale: un breve soggiorno di Arthur Rimbaud a Milano, ospite da una giovane vedova. L’idea era di sovrapporre questa storia a quella di un lontano parente che scriveva poesie. Alla fine rinunciai forse per mancanza di tempo, più probabilmente perché ho troppo rispetto per l’arte del narrare».
Lei è stato amico di Ennio Flaiano, ma non si sarebbe detto.
«Tre persone su tutte ho considerato vicine: Dino Buzzati, Alessandro Spina e appunto Flaiano. Mi erano care per rigore e intelligenza. Da giovane leggevo Flaiano sul Corriere e gli ho anche scritto. Mi piaceva quel modo folgorante di condensare in poche righe, in una battuta, un personaggio o una situazione».
È il Flaiano più abusato.
«Nessuno credo sapeva usare l’aforisma come lui. Il suo romanzo Tempo di uccidere, che si aggiudicò la prima edizione del premio Strega, non mi convinse.
Neppure il celebrato Un marziano a Roma, mi parve un’opera pienamente riuscita. Le sembrerà strano, ma ciò che più ho apprezzato in Flaiano è stato il profondo senso cristiano che affiorava dai nostri discorsi. Era un uomo tormentato da una situazione familiare non facile, con una figlia molto malata».
Si finisce sempre col fare i conti con la sofferenza.
«Appartiene a questo mondo».
Qual è il suo rapporto con la Chiesa, scossa com’è dagli scandali?
«Dobbiamo stare con il Papa, tutto il resto verrà da sé. La Chiesa ha conosciuto periodi peggiori di questo».
Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Penso di sì. Il mio dare e avere mi appare in buon equilibrio. Ho avuto tante persone che mi hanno voluto bene e che ho ricambiato. Anche da gente con cui avevo duramente polemizzato è nato un rapporto se non di amicizia di comprensione».
Allude allo scambio di lettere con l’ex terrorista Arrigo Cavallina?
«Quelle lettere che ci scambiammo per anni, lui dal carcere io fuori, decisi di pubblicarle l’anno scorso con il titoloIl terrorista & il professore. Mi sembrava un modo per entrare in quella stagione che fu definita di “piombo”. Nessuna giustificazione per quello che è accaduto, per il sangue versato, per le vittime innocenti. Ma saper accogliere chi del dolore altrui si era fatto interprete, questo sì. C’è sempre ilravvedimento, una possibilità che si realizza con Dio. Solo lui, attraverso noi, può perdonare».
Ha mai sentito il bisogno di farsi perdonare?
«Non credo di aver compiuto atti deplorevoli tali da richiedere il perdono. La nostra vita verrà scritta nel cielo».
Nel cielo qualcuno legge gli astri.
«Allude al fatto che sono un po’ astrologo? Jung era interessato al dato caratteriale in relazione al segno zodiacale. Trovo I Ching un libro sconvolgente. Il costrutto di una dottrina sapienziale su base statistica».
Le capita di consultarli?
«Per le cose importanti sì».
Ammetterà che la funzione del caso qui va in direzione opposta a Dio.
«Tommaso d’Aquino sosteneva che le inclinazioni astrali non ci privano della libertà e rinviano sempre al disegno divino».
Quando è stata l’ultima volta che ha consultato I Ching?
«È trascorso molto tempo. Non ci sono state occasioni importanti».
Non è importante ciò che vive in questo momento?
«Ma so già come andrà a finire».