Robinson, 10 dicembre 2022
Intervista a Franco Nero
A diciannove anni Franco Nero fu la comparsa più lesta ad alzare la mano e si guadagnò la prima battuta, nel dramma di emigranti Pelle viva, di Giuseppe Fina, 1961. Sessantun anni e duecentoquaranta titoli dopo — una carriera che ha spaziato tra generi e autori, Huston e Buñuel, La Bibbia e
Il giorno della civetta, Abele, Django, Lancillotto — Nero, 81 anni, firma il secondo film da regista ed è ancora un racconto di immigrazione.
L’uomo che disegnò Dio (al Torino film festival, in sala a gennaio), racconta di un artista cieco che disegna ritratti fedelissimi. Accoglie in casa una madre e una figlia, rifugiate politiche da un paese africano, e per aiutarle accetta dientrare in un reality-circo, viene accusato ingiustamente di pedofilia e stritolato dai media.
Perché questo film?
«Mi interessava il tema della cecità, il razzismo, la tv spazzatura che usa le disgrazie per fare audience, la solitudine della vecchiaia.
Soprattutto penso che sia importante oggi parlare di accoglienza, con quel che succede nel mondo, in Africa, Ucraina».
Si è mai sentito un immigrato?
«Mi è successo in Italia, nell’ambiente del cinema. Premiato in tutto il mondo, qui sono un po’ fuori dal sistema, non appartengo a nessuno dei piccoli clan, sono un pesce fuor d’acqua. Ma sono felice della carriera».
Il pittore viene accusato di aver abusato della ragazzina che ha solo accompagnato a fare i bisogni in uncespuglio. Perché il tema e Kevin Spacey come poliziotto che indaga?
«Il produttore Louis Nero mi disse che Kevin Spacey, che conoscevo già bene da Londra quando dirigeva il teatro Old Vic, aveva piacere di tornare sul set: non lavorava da quattro anni. Ma non c’erano rimaste tante parti, l’unica era quella del poliziotto. Kevin ha accettato subito perché ha letto la sceneggiatura e creduto nel progetto».
La scelta ha fatto molto discutere.
«Sì. Ci sono state polemiche, specie dai giornali anglosassoni. Ma io ho sempre detto che nessuno è santo, di certo Kevin ha sbagliato, ma bisogna dare una seconda possibilità a una persona. E ora mi pare che si stia prendendo le sue rivincite: è stato prosciolto dalla vera accusa, quella che gli ha impedito di lavorare per anni. Sul set è stato di una umiltàunica anche se è forse il più grande attore di questi tempi».
In una scena il personaggio di Stefania Rocca le dice che vorrebbe adottare un bambino con la sua compagna e lei risponde: “Sei sicura che un bambino voglia due madri?”.
«Questo cieco è sempre molto secco, scontroso. Ho pensato di fargli dire questa battuta: non è contento che due donne debbano avere un figlio. È una questione politica».
È anche il suo punto di vista?
«Sì, però sono aperto a tutto, non sono polemico verso il mondo omosessuale, in cui ho molti amici che rispetto» .
In questi giorni è su un altro set.
«Sì, a Roma, giriamo in una casa piena di correnti gelide, spero di non buscarmi una bronchite. Lo scorso luglio sono passato dai 38 gradi della capitale ai 12 dell’Irlanda, sul set diThe Pope’s exorcist. Ero quasi afono, ho interpretato il Papa con una vocina...Le mie scene, poche ma scritte bene, sono con “l’esorcista” Russell Crowe, che presentandoCinderella Man a Venezia aveva detto che faceva l’attore ispirato dai miei film, ma ora non se lo ricorda. Ma è simpatico. Ho rifiutato un ruolo con Denzel Washington in Italia: era insipido».
Restando sui pontefici, nel suo libro “Django e gli altri” (Rai Libri), c’è una sua foto con papa Francesco.
«Incontro l’ambasciatore slovacco, mio fan, mi chiede se voglio conoscere il Papa. Giorni dopo mi chiama, sono su un set piovoso in Cornovaglia, mi dà appuntamento.
Mio figlio Carlo mi chiama da Londra: vuole venire. Così mi presento con Carlo, sua moglie e Vanessa. Nel lungo incontro porto il mio vino alpontefice, che scherza: “Vuole fare ubriacare il Papa?”. Era interessato al mio lavoro con giovani dei paesi poveri nel villaggio a Tivoli, che faccio da 56 anni».
Ha portato Vanessa Redgrave.
«Sì, il nostro rapporto dura dal ‘66, tra alti e bassi, come tutti. Vanessa è sempre stata atea, non è mai andata in chiesa. Ma dopo che abbiamo perso nostra figlia, Natasha (Richardson, morta in un incidente sugli sci nel 2009, ndr) ha iniziato un percorso, anche perché nostro figlio Carlo è molto religioso, e si è avvicinata alla fede».
Il vostro primo incontro sul set di “Camelot”, Lancillotto e Ginevra.
«In realtà non fu colpo di fulmine, mi sembrava una hippie, una ragazzina un po’ anonima. Molto presto mi ha conquistato per carattere e ironia».
Spielberg la fece ingelosire?
«Quando ci hanno presentati lui ha detto che c’eravamo già visti: “Tu eri geloso di me perché facevo ballare Venessa”. Era successo ai tempi diCamelot a una festa hollywoodiana con sciarade, balli e star. Steven era un ragazzino, non lo ricordavo».
Ha conosciuto Vanessa grazie ai dischi di John Huston.
«Devo moltissimo a John. Mi vide, mi fece spogliare nell’ufficio davanti a tante persone, mi volle per fare Abele inLa Bibbia con Richard Harris, i produttori puntavano sulla coppia Brando-Newman. Huston mi disse che avevo chances, ma dovevo parlare inglese. Mi prestò dei dischi con opere shakespeariane che imparai a memoria: non capivo, ma la pronuncia era perfetta, tanto che convinsi il regista diCamelot, Joshua Logan, a Londra recitandogli quei sonetti».
In quel periodo lei, da Francesco Sparanero, divenne Franco Nero.
«Dino De Laurentiis mi voleva col nome d’arte Castel Romano, come la via dei suoi studios. Piansi per fargli cambiare idea, mi salvò l’assistente».
Ha rischiato di morire assiderato in “Django” e a cavallo in “Camelot”, ha girato in tutto il mondo, cambiato generi...
«Vengo dalla campagna. Ho fatto il macellaio, il pasticcere, il panettiere.
Queste esperienze sono state la mia scuola di recitazione. Non volevo essere una star, ma un attore, curioso come mia nonna, gitana spagnola. Ho recitato in 30 cinematografie diverse».
È stato in studio con Frank Sinatra, giocato a tennis con Tony Bennet, andato a pesca con Burt Lancaster.
«E ho giocato a pallone con Maradona, una volta. Abbiamo passato una serata a Punta dell’Est, Uruguay, ripeteva alle figlie “questo è un grande attore”».
L’incontro più emozionante?
«Il più grande attore è Laurence Olivier, l’incontro più emozionante fu con William Holden, avrò vistoPicnictrenta volte. Abbiamo girato 21 ore a Monaco, sulle Olimpiadi. Una sera a una festa mi sento toccare la spalla: Paul Newman mi presenta Woodward e mi chiede l’autografo per la figlia».
Fassbinder collezionava i suoi film.
«Si, aveva a casa tutti i dischi di Modugno e le videocassette dei miei film. Mi voleva inLili Marleen, ma ero impegnato. Mi manda il copione di
Querelle de Brest. Sono incerto. Mi fa chiamare al telefono, ma poi resta muto. Più tardi scoprii che non aveva avuto il coraggio di parlarmi.
Stravedeva per me, una notte al ristorante mi fece firmare un contratto su un tovagliolo per tre film. Ma e morto poco dopo».
Il rapporto con Buñuel?
«A Tarantino spiegavo la poetica del fanciullino di Pascoli, i geni sono bambini, Buñuel era così. Mi impose perIl monaco al posto di Omar Sharif o Peter O’Toole: “Io prendo Nero”, non amava il nome Franco. A Toledo, sul set, un giorno cerca disperato la sua ”maleta”, la borsa. Pensiamo a chissà quali appunti, la troviamo, lui la stringe al petto. Mentre gli altri tornano al lavoro, si apparta su una panchina lontana. Lo seguo. Dalla borsa tira fuori un panino con lo Jamon serrano, e una bottiglia di Coca-cola piena di vino rosso. “Luis, che fa?”. Si agita: “Nero, non dire nulla, loro devono lavorare, io ho fame!».
Il suo sogno più grande, oggi?
«Vorrei che non ci fossero armi nel mondo, perché senza armi non si fanno le guerre. E non si uccide nessuno». Parola di Django.