Robinson, 10 dicembre 2022
Intervista a Zerocalcare
Viviamo in mezzo alle macerie. Anche se, quantomeno i più fortunati, cercano di far finta di niente. Eppure il mondo intero è sotto una cappa pesantissima infestata di mostri e fantasmi che fino a pochi anni fa mai avremmo immaginato che potessero toccare le nostre vite: pestilenze, guerre, carestie, minaccia nucleare. Per questo, quella di Zerocalcare alla Fabbrica del Vapore di Milano è qualcosa di più di una mostra: è uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi. Racconta un mondo in cui quasi tutto è sbagliato. Eppure qualcosa si muove sotto le ceneri: piccole fiammelle che brillano ancora nonostante tutto. Una resistenza. Flebile ma attiva. La speranza che possa ritornare il fuoco.
Come nasce l’idea di questa mostra?
«Era prevista da molto tempo, da prima della pandemia, adesso finalmente ci siamo. E sono state aggiunte molte cose rispetto a quella precedente al Maxxi di Roma».
Perché si intitola “Dopo il botto”?
«È il botto che si è abbattuto sulle nostre vite con il Covid, che ha prodotto una lacerazione profondissima e ha cambiato radicalmente rapporti, geometrie, amicizie.
Anche adesso che si è tornati a una vita quasi normale permangono cicatrici dal punto di vista emotivo che hanno cambiato il modo di rapportarsi tra le persone».
A cosa ti riferisci in particolare?
«Al fatto che sia diventato molto difficile discutere: c’è un approccio spesso dogmatico che forse deriva dal fatto che molte opinioni si sono formate su Internet e non attraverso la mediazione e il confronto dal vivo. In rete è sempre tutto più radicale che nella realtà e l’atteggiamento “sei dalla parte mia o sei il male assoluto, il traditore, il servo dello stato, il collaborazionista, l’untore” finisce per spostarsi su tutto. E così diventa difficile trovare delle mediazioni e una sintesi» .
Sul Covid ci sono state e continuano ad esserci divisioni trasversali e spesso inaspettate.
«Sì, io non sono mai stato d’accordo con i no-vax ma al tempo stesso credo che fare le barricate e il cercare un capro espiatorio da una parte e dall’altra sia devastante» .
Questa frammentazione sociale dura ancora?
«Sì, continua ad essere una ferita aperta per molti. E quel modo di affrontarla si è spostato anche su altre questioni, in primis la guerra ma anche cose più banali, quotidiane.
È tutto un tagliare con l’accetta, manca la capacità di fare ragionamenti più elaborati su tutto o quasi».
La confusione è grande, basta guardare la guerra: nazisti che vanno a combattere sia con gli ucraini che con i russi si trovano con persone di provenienza opposta.
«Si sono rimescolate tutte le geometrie delle amicizie, delle alleanze ma quando esiste una pratica condivisa si trova una sintesi anche nelle differenze. Le persone si ricompongono nella pratica e si dividono nelle opinioni: quando la pratica manca nascono le divisioni».
Questo però non sembra avvenire a destra: forse perché offre soluzioni più semplici.
«L’identitarismo è di gran lunga la soluzione più semplice mentre tutto quello che è identità complessa è difficile da raccontare e quindi è debole perché apparentemente non ha una soluzione chiara su tutta una serie di punti.
Non ce l’ha perché non c’è. Se tu invece offri simboli che sono evidenti, riferimenti semplici, identità basilari sei avvantaggiato e la gente ti segue».
Non a caso i populismi, sia di destra che di sinistra, vincono in tutto il mondo, sempre che un populismo si possa definire di sinistra. C’è una soluzione?
«Lo sforzo che si dovrebbe fare è cercare di usare un linguaggio semplice per spiegare tematiche complesse.
Se invece si semplificano i concetti è come usare un rullo compressore. Mi rendo conto che parlare in modo semplice di una cosa più complicata è difficile, eppure è proprio questo lo sforzo che andrebbe fatto».
Tu parli spesso di resistere creando situazioni migliori.
«Questo però si fa nella società. Non voglio fare un discorso qualunquista, non è che penso che in Parlamento “sono tutti uguali”, ovviamente c’è chi è meglio e chi è peggio ma per me arriva dopo: le questioni nascono dal basso non è che qualcuno dall’alto le risolve».
Anche perché poi il dibattito nella società dello spettacolo si svolge tra tv, giornali e social che, come ben sappiamo, sono facilmente infiltrabili da troll che producono notizie false o, come si dice, “post-verità”.
«La realtà è lo specchio della società, per cui se la politica sono diventati gli influencer è evidente che la nostra società ha un enorme problema».
Tu ormai sei diventato un soggetto politico.
«Io non mi sento politico in senso stretto: le cose che mi stanno a cuore della politica sono quasi indipendenti da chi è al governo in un certo momento. Da quando è arrivata Meloni molti mi chiedono come mi rapporto a questa cosa ma la realtà è che con i governi precedenti le cose non è che andassero bene, non sono mai stati gli anni dei “governi amici”» .
Manu Chao parlava del “barrio”, del quartiere, come del luogo dove incominciare a cambiare le cose. Ci credi?
«Sì: è anche il luogo dove è più facile farlo perché può mettere in campo le relazioni a misura d’uomo.
Quando si punta più in alto o si è davvero molto organizzati oppure si fa opinionismo, non politica, mentre ciò su cui puoi intervenire è la politica dal basso».
Chi sono adesso i tuoi lettori, quelli che presumibilmente verranno a vedere questa mostra?
«È tutto molto random: la serie Netflix ha rimescolato molto le carte. Non c’è più un lettore tipo. Ci può essere il ragazzino di otto anni e quello di sessanta, non c’è più neanche collocazione politica o sociale: mi sembra che il minimo comun denominatore sia un’unica cosa…».
Quale?
«Quella di stare un po’ impicciati» .
In che senso?
«Quello di essere uno che riconosce in sé delle fragilità, insicurezze rispetto a quello che sta intorno che sono un po’ il collante tra quello che sta intorno e il lettore».
Che filosofia segue la mostra?
«Serve a rappresentare le sfaccettature mie e degli altri oggi, con l’uso di materiali molto eterogenei: politica, intrattenimento, roba più personale e intima. Non esistono compartimenti stagni: non è che se a uno piacciono le serie tv non può avere un’idea sul mondo o sul fascismo. Viceversa, non è che se una persona invece è interessata alla politica, allora rifugge da tutto quello che è pop. È una mia missione quella di cercare di raccontare le persone nella loro complessità. Inoltre la mostra ha una sua componente collettiva perché tutte le parti legate alle locandine o ai manifesti che riguardano cause socialisono sì disegnati da me, ma pensati dalla comunità che animava quella determinata iniziativa. È una fotografia non esaustiva, ma comunque molto significativa di tutta una serie di cose che ci sono state negli ultimi vent’anni: cose di cui non si è parlato granché nei grandi media.
Spero che avere tempo per guardarle in una mostra possa aiutare a capire un po’ meglio».
Ci saranno 500 tavole originali…
«Molte di più in realtà: non credevo neanch’io di aver fatto ’sto botto di roba dal 2018 in poi!» .
Anche l’ingresso sarà particolare: tu entri e cosa vedi?
«È come se ti trovassi a camminare per una strada in una situazione post-apocalittica dopo che un asteroide è caduto sulla terra. Ci sono palazzi semidistrutti con le persone che hanno cercato rifugio sui tetti e da lì tentano di comunicare le une con le altre, mentre nelle strade della città c’è la distruzione: uno dei modi per farlo è accendere dei fuochi che permettono di vedersi da una parte all’altra e parlarsi. Sono i vari fuochi delle resistenze che possono essere politiche, umane e così via. Quelle che nonostante il disastro animano un po’ questo paese.
Dentro queste case ci sono le opere esposte».
Joe Strummer dei Clash nell’ultima parte della sua vita organizzava proprio dei falò attorno a cui la gente si incontrava suonando, parlando e così via…
«I riferimenti sono tre: il primo è proprio Joe Strummer con i falò, il secondo La strada di Cormac McCarthy, con padre e figlio che portano il fuoco e devono fare in modo che non si spenga e poi Il Signore degli Anelliquando da una montagna all’altra tutti gli avamposti accendono le
fiaccole e si vedono nonostante siano molto distanti».
Dentro le case ci sono dei tentacoli e altre cose inquietanti: cosa sono?
«Tutti i mostri venuti fuori in questi ultimi anni».
Entri, segui questa strada e poi trovi varie stanze…
«Sì, sono i focus dove sono state raccolte le cose su cui ho lavorato di più. Da una parte ci sono quelle più collettive: le questioni del lavoro, di genere, ingiustizie, opposizione sociale, le tematiche legate al Kurdistan. Da un’altra parte invece ci sono le cose più legate alla vita di tutti i giorni, le mie passioni tipo serie, supereroi, l’aspetto più pop».
Il mondo Marvel non a caso ha tutta una lettura sociale: è interessante proprio per quel motivo.
«Alcune delle cose più critiche e politiche a fumetti le ha fatte la Marvel. Ci sono stati autori con una precisa visione del mondo che hanno raccontato storie intensissime: un esempio degli ultimi tempi èDevil’s Reign di Chip Zdarsky, con una riflessione sul carcere molto forte» .
Nella mostra ci sono una serie di “santi protettori”...
«È una cosa ironica. Sono una serie di figure a cui sono legato, da Gaetano Bresci al T-Rex diJurassic Park ».
Non credevo che tra questi ci fosse anche Cobain.
«Da ragazzino i Nirvana mi piacevano molto. E il tema dell’incapacità di gestire il successo di Cobain è un tema su cui vale la pena di riflettere. Oggi ancora di più» .
Tu ci riesci?
«Mica tanto ma ci provo, credo che l’importante sia non cambiare la tua vita. La mia è rimasta più o meno uguale».
Nasrin ci porta al Kurdistan.
«Uno slogan del movimento delle donne curde che dice:“Donna vita libertà” è arrivato anche in Iran. Per questo nonostante tutto sono ottimista: quando ti dicono che aboliranno la polizia morale significa che si rendono conto che quella roba non riescono più a tenerla» .
Non a caso la rivolta in Iran nasce dalla morte di una ragazza di origine curda, Mahsa Amini, uccisa perché portava male il velo. Ma la rivolta nonostante torture e omicidi continua. E in Kurdistan cosa succede?
«La Turchia sta intensificando gli attacchi bombardando ospedali, centrali energetiche, silos di grano, preparando così un inverno in cui la gente non si potrà scaldare, curare, uscire, mangiare».
In queste guerre a cui stiamo assistendo non c’è nessun rispetto per i civili, le donne i malati, i bambini: non credevo che dopo le guerre del passato e la Convenzione di Ginevra saremmo tornati a questo.
«Invece è la stessa barbarie del ’900. Anche perché usare queste modalità significa non solo perpetuare questa situazione ma anche avviare un potenziale circolo senza fine che porta a far regredire anche le società dove questi temi sembravano ormai acquisiti».
E forse in generale creare, oltre alla paura, un’idea militarizzata della società dove prosperano gli armamenti, regrediscono i diritti e vengono annullate le opposizioni. Per questo servono i fuochi di Zerocalcare e magari anche tornare ad ascoltare qualche disco di Joe Strummer e dei Clash: quando Londra chiamava per combattere «gli zombie della morte» e l’idea di ribellarsi alle ingiustizie sembrava una cosa bella e possibile.