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 2022  dicembre 09 Venerdì calendario

Una nuova biografia di Ennio Flaiano

Dentro e fuori. Ennio Flaiano è sempre dentro e fuori le cose: dentro e fuori la letteratura, dentro e fuori il cinema, dentro e fuori l’Italia, dentro e fuori Roma. Dentro e fuori sé stesso e, in definitiva, dentro e fuori il mondo. Franco Cordelli, in chiusura del suo ultimo libro, Tao 48 (La nave di Teseo), lo immagina su Marte: da morto, Flaiano ha trovato la sua collocazione, è diventato quel che è sempre stato, un marziano (prima in terra, ora finalmente al posto giusto). E su Marte viene visitato dal terrestre Cordelli, che in un dialogo ironico e doloroso gli porta notizie sulla sua fama postuma di «grande scrittore italiano di fantascienza», anzi il più grande di tutti. È un paradosso, naturalmente, che però il fantasma-marziano Flaiano accetta di buon grado. Del resto, poco prima Cordelli gli ha fatto dire che il Leitmotiv o l’ossessione della sua vita era l’idea di un marziano sulla Terra, ovvero di «un marziano a Roma» (che, come si sa, è il titolo di una sua opera), Roma in quanto «quintessenza della terrestrità», dice lo spirito di Flaiano rivelando che in fondo quel marziano malinconico – narrato in un breve racconto-diario del 1954, diventato poi una commedia teatrale nel 1960 e un film televisivo postumo – era lui.
Detto ciò, si capirà perché Ennio l’alieno, il libro che Renato Minore e Francesca Pansa (Mondadori) hanno dedicato a «i giorni di Flaiano» nel cinquantenario della morte, non potrebbe avere titolo migliore. Si parte dalla Pescara dell’infanzia, con un padre dannunziano e fedifrago e una madre sofferente, evocando il ricordo della fame e del freddo in un collegio di Fermo; poi, in una progressione cronologico-tematica, si passa al definitivo distacco dalla famiglia, al periodo del primo esilio romano (in un altro collegio della «città terribile»), all’arruolamento del sottotenente per la guerra d’Etiopia. Si arriva al matrimonio con Rosetta, alla nascita nel 1942 di Luisa, detta Lè-Lè, la bambina affetta da encefalopatia infantile con crisi epilettiche.
L’immagine che ne viene fuori, una volta terminate le oltre 200 pagine, è quella di un uomo in bilico tra l’indolenza e l’iperattività, che attraversando, vivendo e spesso soffrendo la vita e il lavoro di scrittura (cinema e altro), rimaneva sempre un po’ appartato dalla vita e dal lavoro, per una sua sfiducia o per un disincanto, oppure per sfiducia altrui quando lui mostrava di crederci troppo. Il che accadde, per esempio, per il progetto cinematografico di Melampus, che Flaiano aspirava a dirigere in proprio, dopo aver lavorato dietro le quinte con i maggiori registi del suo tempo (da Fellini ad Antonioni): ne ricavò uno dei peggiori fallimenti della sua vita, per i dubbi che il produttore Carlo Ponti manifestò sulla sceneggiatura. A quella non rimediabile sconfitta professionale e umana («Ponti e Melampo — dirà Flaiano a un’amica – mi hanno condotto alla tomba») il libro di Minore e Pansa dedica diverse pagine: ed è bene, perché quell’esperienza ci mostra al meglio come Flaiano lavorasse su più piani, incrociando generi e materiali diversi. All’origine di quella storia newyorkese di uno scrittore «in panne» c’è un appunto di diario del gennaio 1965, cui segue una sceneggiatura rielaborata fino al 1969 e accompagnata dal Taccuino di Melampo, una sorta di diario di lavoro o quaderno di appunti. Con quel fallimento (ratificato nel 1972 da La cagna di Marco Ferreri, che gli «ruba» il soggetto tenendolo in disparte) precipita la grande illusione.
Sentiamo echeggiare nel corso di tutto Ennio l’alieno la domanda di Maria Corti: se il generoso e instancabile «lavoratore» del cinema abbia sminuito e frustrato l’identità dello scrittore, o se le ambizioni letterarie abbiano privato il cinema italiano di un grande cineasta a tutto tondo. Eccoci tornati al dentro e fuori: dove sta esattamente Flaiano? Una delle prime scene che ci regalano Minore e Pansa sono quelle del premio Strega 1947, prima edizione: dopo aver scritto di malavoglia, grazie alle insistenze di Leo Longanesi, Tempo di uccidere, lo vediamo finalista, «apprensivo, un po’ timido, come sempre ironico più per difesa che per attacco», in una saletta appartata in attesa che si concluda lo spoglio dei voti, fino all’applauso finale… Quest’uomo metamorfico, narratore, saggista, giornalista, moralista, critico, sceneggiatore obbediente alle commissioni di altri e quasi mai per propria iniziativa autonoma, è un flâneur non catalogabile, un irregolare che attraversa i generi, dentro e fuori di continuo. A cominciare dalle collaborazioni per i giornali (su tutti «Oggi» e «Il Mondo» dell’amico Pannunzio) con le recensioni di cinema, libri e teatro del periodo fascista, quando «l’unica protesta… era quella di non parlare mai delle cose ma sempre di altre cose», e proseguendo con le cronache dalle rovine della guerra e del dopoguerra fino agli articoli, racconti e frammenti raccolti ne La solitudine del satiro. Solitudine è una parola chiave del grande conversatore da caffè, l’arguto osservatore del costume italiano e suo fustigatore ironico. È la solitudine la «chiave dell’esistenza», dirà l’alieno Flaiano trovandosi di fronte all’immensità oceanica nelle settimane in cui gira il documentario sul Canada. Passato meno di un anno, gli sarebbe stato fatale il secondo infarto dopo che il primo lo aveva indotto al ritiro da tutto, nell’isolamento di un residence. Così dentro e così fuori anche dal suo tempo, refrattario al successo che sentiva come una colpa e una condanna, l’inclassificabile Flaiano, che le antologie e le storie letterarie per decenni hanno ignorato allegramente, avrebbe avuto la chance di un secondo tempo, postumo, che dura ancora, con studi e nuove edizioni, e che Ennio l’alieno non avrebbe mai immaginato.
L’ultimo capitolo del libro ci regala un racconto ravvicinato di mamma Rosetta e Lè-Lè, che sarebbe morta per infarto nel 1992 in una clinica di Lugano: è la figlia di cui Flaiano non parlava mai, pur dedicandole un poemetto di straordinaria straziante bellezza, Spirale tentatively, che Cesare Garboli definì «un immenso sospiro di liberazione, una confessione e un testamento», destinato a uscire postumo. Se Ennio faticava a parlare di Lè-Lè, aveva le sue ragioni: quella ferita doveva fare i conti con l’incomprensione circostante. Quando incrociava la bambina, Fellini non riusciva nemmeno a guardarla in faccia; e appena arrivava il regista, Lè-Lè si agitava e scappava in camera sua. Un giorno Federico si lascia sfuggire davanti ai genitori un brontolio: «Ma perché non la rinchiudono?». Rosetta Rota, laureata due volte, in Matematica e in Scienze statistiche, era stata giovane ricercatrice a fianco dei ragazzi di via Panisperna: è una donna straordinaria, dedita alla figlia malata per oltre vent’anni dopo la morte di Ennio, «il marito amato e perdonato di tutto, sempre». Lascerà a Lugano, prima di morire nel 2003, una Fondazione a beneficio di persone disabili come Lè-Lè.