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 2022  dicembre 10 Sabato calendario

Il comandante che salvò i nemici affondati

La storia che ha portato alla nascita di questo libro è miracolosa, e una storia miracolosa deve essere raccontata. È una storia che ha luogo nell’estate del 2018. Quella del 2018 in Italia è stata un’estate terribile. Come tutte le estati erano aumentati i viaggi dei migranti in fuga dai lager libici, viaggi che potevano avere solo tre esiti: o riuscivano, e i barconi pieni di gente approdavano a Lampedusa, a Malta, in Sicilia, in Calabria; o venivano immediatamente bloccati dalla Guardia costiera libica, che riportava i fuggiaschi nei lager; oppure si trasformavano in tragedia, con i motori che smettevano di funzionare, i gommoni che si sgonfiavano, gli scafi che si rovesciavano e i profughi che di colpo si trasformavano in naufraghi. Ciò che rese quell’estate così difficile da sopportare fu il fatto che, anziché un potente moto di solidarietà, in Italia si produsse una violenta onda xenofoba che si accanì in particolare su questa terza categoria di persone – cioè coloro che una volta finiti in acqua, anche ammettendo che disponessero di qualche relitto cui aggrapparsi, non avevano che poche ore di sopravvivenza. Su di loro, gli ultimi degli ultimi, venivano convogliate le più basse deiezioni morali sotto forma di slogan ripetuti sui social media: «Buon appetito ai pesci», «È finita la pacchia», «È finita la crociera» – mentre alla Guardia costiera italiana veniva impedito di intervenire e i migranti annegavano. Vi erano solo alcune imbarcazioni di soccorso non italiane che incrociavano le acque, chiamate Sar (da Search and Rescue, cioè Ricerca e Soccorso), e di tanto in tanto effettuavano salvataggi, dopo i quali però iniziava l’odissea alla ricerca di un porto dove sbarcare i naufraghi (il governo nel frattempo aveva avviato la famosa politica dei porti chiusi), mentre l’onda xenofoba si schiantava sulle Ong che le avevano armate, fatte oggetto di una brutale campagna diffamatoria: «Taxi del mare» vennero chiamate le navi che effettuavano i soccorsi, alludendo a una mai dimostrata, anche nelle molte inchieste giudiziarie, complicità dei soccorritori con gli scafisti libici – naturalmente a pagamento.

In questo tempo impazzito, colmo di rabbia e di frustrazione, io non riuscivo più a dormire. I miei pensieri si allagavano di quelle mostruosità e nient’altro mi interessava – una reazione che non avevo mai sperimentato, così radicale e pervasiva, in tutta la mia vita. Per convogliare il mio malessere in azioni concrete, mi misi in contatto con i responsabili delle Ong, in lista d’attesa per far parte degli equipaggi futuri, ma soprattutto, per la prima volta in vita mia, fondai un movimento: mi resi conto infatti che nelle mie stesse condizioni si trovavano molti amici e amiche ai quali confessavo la mia frustrazione, e li arruolai sotto una sigla, «Corpi», che indicava il desiderio di mettere per l’appunto il proprio corpo tra quell’onda xenofoba e le sue vittime. Nel fare questo, però, agii come se stessi organizzando una festa per il mio compleanno: invitavo le persone di cui apprezzavo l’impegno e la coscienza sempre mostrati nel compiere il proprio lavoro, col risultato che molti si ritrovarono a far parte del gruppo solo perché conoscevano me, senza conoscersi tra loro. Ora non starò a riportarne la lista completa*, ma vorrei ricordare la risposta che ottenni da Antonio Pennacchi, uno dei pochissimi più avanti di me negli anni, quando lo sollecitai a farne parte: «A Verone’, io viaggio co’ due bastoni, ma se me chiedi di accompagnarti sulla nave a dare una mano a quei disgraziati te dico di sì».
Misi dunque insieme questo gruppo di amici volenterosi in una chat su Signal chiamata per l’appunto «Corpi». Tra di loro c’era anche Edoardo De Angelis, che avevo conosciuto da poco poiché mia moglie aveva lavorato alla promozione del suo film Il vizio della speranza. Prima ancora di incontrarlo di persona e venire investito dalla sua fraterna energia, ero rimasto colpito da un fatto: durante le riprese del film, ogni mattina all’alba lui mandava a tutti quelli che ci lavoravano, compresa mia moglie, un messaggio che chiamava «nota», per accordarli su un’ispirazione comune cui fare riferimento durante la giornata di lavoro. Si trattava di un suo breve testo di fulminante bellezza, la cui lettura era diventata motivo d’ispirazione quotidiana anche per me, che non c’entravo niente e lo leggevo di straforo. Mi resi conto lì che Edoardo appartiene a quella stirpe di registi che scrivono bene, e questo ovviamente me lo fece apprezzare in modo particolare.
Tra le cose che Edoardo portò nella chat ci fu un link, una mattina, al sito di «Avvenire» che riportava le dichiarazioni dell’Ammiraglio Pettorino, allora Comandante della Guardia costiera, il quale, nel suo discorso in occasione dell’anniversario della fondazione del corpo, pur assicurando la dovuta obbedienza agli ordini provenienti dal governo, che impedivano alle sue motovedette di soccorrere i naufraghi nel mar Libico, teneva a precisare che «salvare le vite in mare è un obbligo di legge e morale». Dopodiché, uscendo dal testo consegnato in anticipo alle autorità, cioè a braccio, si era preso la libertà di ricordare la figura del Comandante Salvatore Todaro, che durante la Seconda guerra mondiale con il suo sommergibile affondò una nave belga in pieno oceano Atlantico per poi salvarne l’equipaggio, disattendendo gli ordini dell’Ammiraglio tedesco Karl Dönitz. In seguito a quell’iniziativa proprio Dönitz lo aveva definito «Don Chisciotte del mare» (uno slogan idiota, anche allora), ma Todaro gli aveva tenuto testa difendendo strenuamente la propria iniziativa di trarre in salvo i nemici e dando la spiegazione che adesso Pettorino faceva sua per manifestare il proprio dissenso riguardo agli ordini ricevuti dal governo: «Noi siamo marinai», aveva detto Todaro, e Pettorino ripeteva, «marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà, e noi queste cose le facciamo».
Colpito da queste parole, Edoardo aveva approfondito la faccenda: aveva così conosciuto la figura di Salvatore Todaro, eroe di guerra della nostra Marina, una volta medaglia d’oro, tre volte d’argento e due di bronzo al valor militare, e soprattutto aveva trovato numerose ricostruzioni dell’episodio cui si riferiva l’Ammiraglio Pettorino. Ognuna differiva un poco dalle altre ma tutte concordavano sul punto cruciale: il salvataggio dei nemici in mare, che faceva risuonare quella storia in tutta la sua limpida e potentissima attualità, e la spiegazione di quella scelta con quella frase poderosa – «siamo italiani».
In privato, Edoardo mi chiamò per chiedermi cosa pensavo dell’idea un po’ folle che gli era venuta, di fare un film da quella storia. Un film di guerra. Un film storico. In cui un ufficiale della Regia Marina Italiana, in piena guerra, disobbedisce agli ordini dei tedeschi e salva ventisei nemici appena affondati con il suo sommergibile. Gli risposi che era un’idea grandiosa, e che era proprio questo che dovevamo fare, cercare argomenti, storie e testimonianze sulle quali concentrarci con tutte le nostre forze per dimostrare che quella che consideravamo una disonorevole infamia era veramente una disonorevole infamia. Certo, ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo, un film di guerra non si monta in quattro e quattr’otto, ma andava bene lo stesso: alcuni si impegnano in iniziative immediate, altri in imprese più laboriose, tutti però puntando verso un unico obiettivo. Edoardo fu molto contento del mio incoraggiamento, cominciò con le sue ricerche e della cosa non parlammo più.
Ed eccoci infine al punto miracoloso della storia; eccoci alla – non so come altrimenti chiamarla, anche se non potrei, perché non sono credente – manifestazione diretta della volontà divina. Tra le persone che avevo invitato a far parte dei Corpi, infatti, vi era anche Jasmin Bahrabadi, un’amica livornese che lavora alla promozione di gruppi musicali, e che io conoscevo da molto tempo. La presentai agli altri Corpi sulla chat: ne conosceva pochissimi. Secondo la sua indole, più che chattare si mise a disposizione per organizzare le liste d’imbarco e le manifestazioni di supporto alle Ong di cui ci facevamo promotori, cosa che fece con impegno. Finché, una mattina, Jasmin mi mandò una mail privata alla quale allegava un pezzo, da lei ispirato, pubblicato in prima pagina dal «Tirreno» e dedicato al Comandante Salvatore Todaro citato da Pettorino, definendolo «un articolo su mio nonno».
Cioè: Jasmin era la nipote di Todaro.
Incredulo, le chiesi il permesso di girare l’articolo nella chat e, ottenutolo, lo condivisi con gli altri accompagnandolo con la sbalorditiva notizia che avevo appena ricevuto. Pochi minuti dopo il telefono squillava: era Edoardo, anche lui sbalordito come davanti a un’apparizione della Madonna.
«Tu lo sapevi, di’ la verità».
«Ti giuro di no».
Due giorni dopo Edoardo era a Livorno con Graziella, la figlia di Todaro, a casa di Jasmin – la stessa casa dove Todaro aveva vissuto con sua moglie prima della guerra. Ebbe accesso ai due bauli conservati amorevolmente che contenevano tutte le cose appartenute a lui: le sue lettere, le fotografie, le decorazioni, i libri di yoga e di occultismo che leggeva e quelli dove, da autodidatta, studiava il farsi, cioè la lingua persiana. (Non la faccio lunga, a questo punto, con i miracoli, ma chi lo desidera può chiedersi perché la mia amica Jasmin di cognome faccia Bahrabadi, cioè da quale Paese provenga e che madrelingua parli suo padre).
Un mese dopo mi arrivò l’invito di Edoardo a scrivere con lui la sceneggiatura del film: anche se scrivere sceneggiature non è mai stato il mio forte, il segno ricevuto dal cielo pareva molto chiaro e accettai con entusiasmo. Memore delle «note» che mandava ogni mattina durante le riprese del Vizio della speranza, e incoraggiato dalla naturalezza con cui, fin dalla prima stesura del trattamento cinematografico, si era impadronito della lingua di Todaro, buttai lì pure una mia proposta: oltre alla sceneggiatura, mentre i produttori mettevano in piedi il film, avremmo scritto insieme anche il libro ispirato a quella esemplare storia italiana. Anche quella proposta fu accolta con entusiasmo.
Quattro anni dopo, mentre le riprese del film stanno per finire, ecco qui il libro. La xenofobia è ancora lì, pronta a montare in nuove onde feroci, e purtroppo anche la guerra, adesso, non è più lontana come allora: ragioni di più perché gli italiani (quelli che vanno per mare, ma soprattutto quelli che non ci vanno, che prendono il sole sul bagnasciuga, e giocano a racchettoni, e partecipano alle feste in spiaggia, e considerano giusto, perfino patriottico, lasciar morire affogata la gente che fugge dalla povertà, dalla persecuzione e dalla guerra) sappiano di chi sono figli. Anzi, nipoti.

* A ogni buon conto, la lista è questa, in ordine alfabetico: Roberto Alajmo, Silvia Bacci, Jasmin Bahrabadi, Alessandro Bergonzoni, Caterina Bonvicini, Marco Cassini, Manuela Cavallari, Teresa Ciabatti, Massimo Coppola, Franco Cordelli, Francesca d’Aloja, Edoardo De Angelis, Luca Doninelli, Stefano Eco, Giuseppe Genna, Silvia Giagnoni, Gipi, Simone Lenzi, Antonio Leotti, Gabriele Muccino, Michela Murgia, Antonio Pennacchi, Riccardo Rodolfi, Elena Stancanelli, Chiara Valerio, Sandro Veronesi, Paolo Virzì, Hamid Ziarati.