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 2022  dicembre 10 Sabato calendario

Venere e Adone di Shakespeare

È il 1593. I teatri di Londra sono chiusi per la peste. Impossibilitato a lavorare per le scene, William Shakespeare pubblica il poemetto Venere e Adone, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, dedicandolo al conte di Southampton, Henry Wriothesley. L’anno dopo, sempre con dedica al conte, dà alle stampe Lo stupro di Lucrezia, più lungo e impegnativo (sono 1.855 versi in stanze di sette versi ciascuna, mentre Venere e Adone conta 1.194 versi in strofe di sei). Il primo poemetto racconta una vicenda che si svolge all’aperto e si conclude, dopo le insistite proposte erotiche di Venere rifiutate da Adone, con la morte di lui sbranato da un cinghiale. Il secondo è ambientato in un interno e racconta lo stupro subìto da Lucrezia ad opera del figlio di Tarquinio il Superbo, Sesto Tarquinio.
Shakespeare è qui poeta e non drammaturgo, eppure le potenzialità teatrali dei due testi sono significative. Ne è convinto Valter Malosti, che proprio da uomo di teatro ha portato in scena i due testi e ora ne pubblica la traduzione, rivista, per Einaudi (William Shakespeare, Poemetti. Venere e Adone – Lo stupro di Lucrezia). Direttore di Emilia Romagna Teatro, Malosti è nato a Torino nel 1961. Di sé dice di essere un proletario prestato all’arte teatrale. E ricorda che la poesia lo ha incantato almeno dalle scuole superiori a Ivrea, quando Clara Gennaro lo introdusse a Emily Dickinson e a Pier Paolo Pasolini. Dialoghiamo con lui a partire dalla sua versione dei Poemetti.
DANIELE PICCINI — Lei ha deciso di tradurre Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia proprio per portare questi testi poetici, non nati per le scene, a teatro. Vuole raccontarci la genesi di questa esperienza?
VALTER MALOSTI — Era il 2007. Stavo realizzando il Macbeth. Una notte leggendo un frammento dell’opera, in cui Macbeth cita lo stupratore Tarquinio, mi incuriosii. Questo brano stabilisce un collegamento con Lo stupro di Lucrezia. Allora decisi di mettermi a leggere i poemetti, nella traduzione di Gilberto Sacerdoti, e prima di arrivare a Lucrezia passai per Venere e Adone. Quella lettura mi appassionò e divertì moltissimo. Perciò decisi di metterli in scena.
DANIELE PICCINI — Lei ha citato la traduzione di Sacerdoti. Perché ha sentito il bisogno di ritradurre i due poemetti di Shakespeare per portarli a teatro?
VALTER MALOSTI — Io interpretavo Venere e Adone come attore e avevo perciò bisogno di avere la mia voce. Così decisi di fare mio quel testo attraverso la traduzione. Avevo in particolare un’idea legata alla musica. In effetti i grandi autori come Shakespeare hanno un doppio segreto: un contenuto sostanziale, ma anche la musica delle loro parole. Molto si perde nella traduzione, ma quello che resta impigliato fra le dita è comunque una polvere magica.
DANIELE PICCINI — A questo proposito, bisogna dire che i due poemetti sono piuttosto diversi, come tono e, appunto, come musica, l’uno dall’altro.
VALTER MALOSTI — Certo. Venere e Adone mi ricorda Ariosto, è tutto en plein air: c’è il respiro della natura, diversamente dai luoghi chiusi in cui si svolge Lucrezia. Lavorando su Venere e Adone ho deciso di fare dialogare il testo con delle partiture musicali. Ho cominciato da Venus and Adonis di John Blow, compositore inglese del Seicento. Ecco: questa musica che accompagna il testo restituisce parte della musica originale che va perduta in traduzione. Se Adone è accostato al clavicembalo, Venere è accompagnata dalla musica contemporanea italiana, ad esempio di Luciano Berio. Così la rappresentazione è anche una storia della musica.
DANIELE PICCINI — Ho l’impressione, leggendo la sua corposa e sonante versione dei due poemetti, che lei rispetto ad altri traduttori (Gilberto Sacerdoti, ma anche Luca Manini) sia meno preoccupato delle strutture chiuse originali.
VALTER MALOSTI — Sì, è così. In Venere e Adone ho dimenticato ogni regola canonica. Ne Lo stupro di Lucrezia ho utilizzato quelli che io chiamo endecasillabi sporchi, con molte libertà. Se il poemetto su Venere ha un largo respiro, Lucrezia ha un ritmo serratissimo, fin dal galoppo iniziale di Sesto Tarquinio. In musica, sarebbe quasi un pezzo rock.
DANIELE PICCINI — Nella sua introduzione al volume einaudiano dei Poemetti lei parla di una resa teatrale più che filologica. A questo proposito, nel suo allestimento di Venere e Adone ha deciso di trasformare Venere in una voce maschile: perché? Questo non contrasta con l’elogio della procreazione che prende corpo nelle parole di Venere?
VALTER MALOSTI — Venere e Adone nasce da una commissione che permette a Shakespeare di lavorare mentre i teatri a Londra sono chiusi per la peste. Il poemetto dovrebbe essere un inno alla procreazione. Ma Shakespeare, un po’ come Caravaggio nella sua pittura, vira su altri aspetti. Sì, c’è il «predicozzo» sulla procreazione, ma c’è anche la lussuria. Tuttavia in Venere c’è una forte intonazione maschile. D’altra parte io nella messa in scena ho «cannibalizzato» tutti e tre i ruoli (narratore, Venere e Adone). Quindi l’identificazione con una voce maschile c’è e non c’è. Ad ogni modo in Venere e Adone si intuisce un lato misterioso. Ted Hughes diceva che Venere è anche il cinghiale che alla fine uccide Adone.

DANIELE PICCINI — La dea che insegue Adone e lo desidera ardentemente, mentre lui si rifiuta, rovescia i canoni tipici della poesia d’amore, in cui è l’amante a corteggiare la donna (sebbene ci siano esempi della donna che ama non riamata in Ovidio, anche se non nell’episodio specifico da cui Shakespeare trae il poemetto).
VALTER MALOSTI — Adone fuggente, che si rifiuta, è l’innovazione di Shakespeare rispetto alla vicenda ovidiana di Venere e Adone. Mi piace pensare che ci sia una connessione tra il dipinto di Tiziano sullo stesso tema, che rappresenta un Adone giovinetto che fa per allontanarsi, e il poemetto di Shakespeare. Il quadro, dipinto nel 1554 per Filippo II, fu per un periodo a Londra e poi circolarono delle incisioni: insomma Shakespeare avrebbe potuto vederlo.
DANIELE PICCINI — Nei due poemetti c’è in forte rilievo la voce femminile, nonostante la componente maschile che lei rileva in Venere. Naturalmente con una netta differenza, visto che Venere insegue, mentre Lucrezia subisce la volontà altrui. I due poemetti sono un dittico sul femminile.
VALTER MALOSTI — Sì, è vero. Rispetto al teatro, in cui Shakespeare era costretto a scrivere monologhi femminili brevi, sia in Venere che in Lucrezia troviamo il dispiegamento di una voce di donna. A proposito dell’idea del femminile nel dittico, quando ho lavorato teatralmente su Lucrezia (era il 2012), ci fu, come del resto oggi, una recrudescenza di atti di violenza sulle donne. Allora coinvolsi le associazioni femminili. Le lettrici hanno colto nel testo una valenza forte riguardo al tema, stupendosi che fosse opera di un uomo. In Lucrezia si mettono in rilievo le conseguenze dello stupro: c’è come una presa di parola sul tema attraverso la poesia. Del resto il lavoro da fare è sui maschi e Shakespeare per l’appunto accenna un ingresso nella mente di Sesto Tarquinio, uno scandaglio del violento, che va via triste, come se avesse perso l’anima. È un tormento, il suo, molto interessante.
DANIELE PICCINI — La lingua della sua traduzione è concreta, quasi tattile, e per certi aspetti «contemporanea» rispetto alla classicità dell’originale. Mi pare insomma che ci sia una virtualità poetica in questa versione, che mira a ricreare, qui e ora, la forza del testo di partenza.
VALTER MALOSTI — Le dirò una cosa di cui non parlo mai. Io all’inizio della mia esperienza avrei voluto fare da una parte l’artista figurativo e dall’altra il poeta. Pensi che nel 1982 partecipai alla prima edizione del premio Montale: non fui selezionato, ma ricevetti una letterina da Maria Luisa Spaziani, in cui mi diceva di continuare.
DANIELE PICCINI — Parliamo un po’ dei poeti che ha letto e che l’hanno formata.
VALTER MALOSTI — Ho amato molto Primo Levi, sia come autore di Se questo è un uomo, che ho messo in scena anni fa, sia come poeta. Ho un grande amore per la poesia di Testori: penso a I Trionfi, ma anche a Ossa mea, che ho letto a teatro. Poi, oltre alla Dickinson e a un personaggio come Anne Sexton, amo intensamente Amelia Rosselli. Mentre tra i viventi ho una passione sfrenata per Patrizia Valduga. Tra l’altro ho portato a teatro il suo Corsia degli incurabili.
DANIELE PICCINI — Come ha conosciuto Valduga?
VALTER MALOSTI — La conosco dai tempi di Raboni critico teatrale del «Corriere della Sera».
DANIELE PICCINI — Raboni recensì qualche suo lavoro?
VALTER MALOSTI — Sì e mi stroncò, per Maskarad di Lermontov. Ero giovane.
DANIELE PICCINI — Lei ha lavorato a lungo sulla parola poetica: vorrei chiederle se crede che ci sia spazio per una alleanza tra poesia e teatro. Tra l’altro sono due mondi che sembrano un po’ ai margini, pur nella loro forza ed essenzialità.
VALTER MALOSTI — Non dobbiamo mai dimenticarci che il teatro antico era in versi. Le persone hanno sete di poesia. Intendendo con poesia qualcosa di alto, di verticale. La poesia ha a che fare con l’oralità e quindi con il teatro. Sono favorevole a investigare questo rapporto. Nella poesia e nel teatro ci sono uomini uno di fronte all’altro, in una sorta di assemblea. Contro il chiacchiericcio.
DANIELE PICCINI — Vista la ricchissima produzione teatrale di Shakespeare, come mai ha deciso di mettere in scena i poemetti, e quanto c’è di teatrale in queste due opere poetiche?
VALTER MALOSTI — Io lavoro a istinto: sentivo che questi testi, poco conosciuti in Italia, ad esempio rispetto ai Sonetti, avevano una natura teatrale potentissima. Del resto anche i Sonetti potrebbero essere letti ad alta voce: sono una forma carnale, si sente un corpo che parla dentro la scrittura. Questo mi fa pensare a Pasolini. Vedendo i suoi dattiloscritti, si sente il corpo che scrive. In questi poeti, Shakespeare e Pasolini, c’è molto corpo. Quanto a Shakespeare, la cosa magnifica è che nei Sonetti mette assieme tutto: Venere e Lucrezia. Tra l’altro l’«io» dei Sonetti non è detto che sia Shakespeare: lui era un uomo di teatro e forse l’«io» delle poesie presuppone un carattere, un personaggio.

DANIELE PICCINI — Per chi lavora nel teatro Shakespeare è una sorta di summa, di enciclopedia dell’arte e anche proprio del mestiere.
VALTER MALOSTI — Shakespeare insegna molto. In primo luogo che tutto è nelle parole. C’è una sapienza nella sua scrittura per cui le sue opere si potrebbero mettere in scena anche senza apparati scenografici. Shakespeare insegna a fidarsi delle parole, non tanto delle esteriorità. E poi dà una lezione pratica: scrive per il teatro, ma è anche un uomo di teatro. Noi in questo senso abbiamo nel Novecento Eduardo De Filippo. Oggi c’è una crisi: mancano figure che abbiano pratica quotidiana del palcoscenico.
DANIELE PICCINI — Nei due poemetti c’è, in modo diverso, la sottolineatura dell’eros e della lussuria, respinta in Venere e Adone, scaricata contro la donna vittima nella Lucrezia. E tuttavia, come lei dice nell’introduzione al volume, in entrambi i testi c’è anche un finale trionfo della morte.
VALTER MALOSTI — Questo è un po’ l’amaro specchio non solo dell’amore-lussuria, ma della nostra vita. Solo che in Shakespeare, nella traiettoria tra inizio e fine, c’è una vitalità sconfinata. Ed è proprio l’energia quella che occorre, anche a teatro: bisogna smettere di parlare di sé. Occorre riscoprire un’architettura di voci nei personaggi, magari soprannaturale come in Venere.