La Lettura, 10 dicembre 2022
La Certosa di Parma di Stendhal
Il 18 giugno 1815, Fabrizio del Dongo, diciassettenne protagonista de La Certosa di Parma, che Einaudi ripropone nella nuova traduzione di Margherita Botto, è a Waterloo, fermo in un angolo di un grande prato, offuscato a tratti dalla nebbia, a tratti dal fumo dei cannoni. La battaglia infuria da ore. L’aria è attraversata dal suono degli spari, dai gemiti dei feriti, dal rimbombare degli zoccoli dei cavalli, dalle urla dei comandanti, da un immenso frastuono. Per terra, giacciono i morti: gli inglesi, i francesi, con le giubbe squartate. A un tratto, un gruppo serrato di generali seguiti da una ventina di ussari come in un quadro di Théodore Géricault, attraversa il prato al galoppo e si ferma di colpo. Un generale, corpulento, con la faccia piena, si rivolge a un altro generale suo vicino, lo rimprovera e impreca. Fabrizio non resiste alla curiosità e domanda a un soldato: «Chi è quel generale che rimbrotta il suo collega?».
«Perdio – risponde il soldato – è il maresciallo».
«Che maresciallo?».
«Il maresciallo Ney, idiota!».
Fabrizio è al settimo cielo: ha visto di persona il famoso principe della Moscova, «il più valoroso dei valorosi». È un istante. Il drappello riparte, e lui rimane solo. Ma non più di tanto. Si accorge, infatti, che è accanto a un sergente, e costui gli sembra «molto bonario». Quindi, gli dice: «Signore, è la prima volta che assisto alla battaglia. Ma questa è una vera battaglia?».
Come è arrivato in un uno dei luoghi destinati a essere fra i più celebri della storia, il figlio del reazionario e oscurantista marchese del Dongo, legato agli austriaci, proprietario del castello fortificato di Grianta, sul Lago di Como? Il racconto delle rocambolesche vicende che lo hanno condotto fin lì, costituirebbe da solo un romanzo: con il meraviglioso capitolo iniziale, nel quale è descritto – tra l’ingresso, nel 1796, dei francesi a Milano e il ritorno, nel marzo del 1815, di Napoleone dall’Elba – il succedersi delle speranze liberali alla cupezza della dominazione asburgica; con il racconto della monotona vita quotidiana nel castello; con l’apparizione della zia di Fabrizio, l’incantevole contessa Gina Pietranera, regina dei cuori nei palchi alla Scala e nelle austere dimore milanesi; con il nascere, soprattutto, così rapido, così veemente, del torbido rapporto fra zia e nipote. «Parto, vado a raggiungere l’imperatore che è anche re d’Italia», le dice un giorno Fabrizio, facendola piangere di «gioia e d’angoscia».
Ora, travolto dagli eventi, ferito a una gamba in uno scontro a fuoco nel quale è casualmente coinvolto, deve affrontare il pericoloso ritorno a Parma. Saluta la bionda Aniken che lo ha accudito nella locanda fiamminga di Zonders e col cuore spezzato lo copre di baci, e si mette in viaggio. Da qui, il romanzo – scritto in cinquantadue giorni, dal 4 novembre al 26 dicembre 1838 – che Giovanni Macchia (Il paradiso della ragione) sostiene essere «il più agile e luminoso fra i suoi», nel quale la velocità del raccontare è tale che gli avvenimenti sembrano addirittura precedere le parole, riprende a correre vertiginosamente. Questa, del resto, la sua velocità, è l’insuperabile bellezza della Certosa: un romanzo (sempre Macchia) «scritto su di un ritmo vorticoso e infernale, senza un centro da cui volta a volta si sviluppino proporzionalmente le parti secondarie e periferiche, e con una perfetta noncuranza del reale e del verosimile», nel quale la politica – libertà contro oppressione, bonapartismo contro restaurazione – se esiste, «sfuma nel capriccio, scompare in un gioco più urgente di interessi e di immaginazione, o nel sorriso».
Ritornato di nascosto alla Grianta, Fabrizio, per sfuggire il castigo paterno e la polizia austriaca (essendo sospettato, da questa, di aver portato messaggi segreti a Napoleone), deve per forza uscire dalla Lombardia. Andrà in una tenuta piemontese di sua madre nella quale rimarrà confinato vari mesi. Le prescrizioni di madre e zia sono un capolavoro: non dare nell’occhio, confessarsi a un sacerdote un po’ stupido, corteggiare una ragazza di buona famiglia. Gina si dispera e piange: «Ormai l’ho perduto! Non lo rivedrò più. Mi scriverà, ma cosa sarò per lui fra dieci anni?». Lei rimane a Milano. Dove entra in scena il conte Mosca, potente ministro del principe di Parma, Ernesto IV, famoso per il suo assolutismo, la sua crudeltà e le sue nevrosi. Grazie a Mosca, subito innamorato di Gina, Fabrizio viene scagionato dalle accuse e può tornare a Parma. Ma per poco. Dovrà diventare arcivescovo. Quindi viene spedito in quel di Napoli a studiare teologia.
Passano quattro anni (in poche righe). Fabrizio torna e si getta nelle braccia di Gina, che nel frattempo, grazie a un matrimonio fasullo e presto concluso con la morte dell’attempato coniuge, è diventata la duchessa Sanseverina, ricchissima, proprietaria di un imponente palazzo, ammirata protagonista della vita di corte. Gina è folle d’amore. Non così Fabrizio, che non conosce l’amore – «La natura mi ha privato di questa specie di sublime pazzia» – e invece, essendo molto amato, con la fresca irresponsabilità che gli è propria, sempre si concede gioiosamente: lo ha fatto nell’esilio piemontese, a Napoli, ora a Parma. Un giorno entra in un teatro dove si dà La locandiera. Lì conosce Marietta, una deliziosa attrice protetta da un tale Giletti, attore a sua volta, violento e parecchio geloso. In un duello sulle rive del Po, Fabrizio uccide Giletti e deve di nuovo fuggire. A Bologna: dove ritrova Marietta, una che per fortuna non vede nel suo cuore, «scambia una carezza per un trasporto dell’anima, e si considera la più felice delle donne».
Il romanzo non si ferma, ovviamente. Un nuovo processo, gli intrighi di corte, la lotta politica, il veleno, ed ecco che appare, riappare, l’altra grande protagonista femminile del racconto, che Fabrizio aveva intravisto, ragazzina appena dodicenne, vicino a Como: Clelia Conti figlia del governatore della cittadella di Parma. Questa cittadella, con la sua fantomatica Torre Farnese, altissima, sopra la quale hanno spazio il palazzo del governatore e il carcere, è il simbolo della Certosa: rappresenta, poiché da subito sembra una torre posticcia, l’impossibilità di elevarsi. Insomma: non appena si incontrano, i due vedono uno nell’altra il vero amore. Lei verginale, immacolata; lui, eroico e nobile. I dialoghi muti che, attraverso i segni, si svolgono fra la finestra della voliera nella quale Clelia cura gli uccellini e quella del carcere, non fanno che rafforzare questa convinzione assoluta. La solitudine, la notte, le stelle, gli incantevoli paesaggi delle Alpi e della pianura padana contemplati da quell’altezza: tutto sembra volgere al sublime, adesso.
Ma non è vero, non sarà così. Come le costruzioni di cartapesta, l’amore e il sublime sono destinati a crollare non appena Fabrizio, suo malgrado, accetta di evadere. Clelia sarà costretta a sposarsi controvoglia; la Sanseverina sta invecchiando; Fabrizio diventa un predicatore allucinato che Parma adora. E non è finita. Ma che gioia, per chi legge, e quale confortante promessa per gli scrittori, sapere che la letteratura e la vita sono un continuo colpo di scena.