la Repubblica, 9 dicembre 2022
I bulli in ufficio
Succede in un’azienda su tre e colpisce più donne e giovanidi Rosaria Amato, Roma e Raffaele Ricciardi, MilanoC’è il collega violento che in un momento di rabbia urla «ti spacco la faccia». E quello più sottile, che raccomanda ai nuovi arrivati di non prestare soldi al vicino di scrivania perché non li restituirà mai, o racconta in giro che “porta sfiga”. La violenza tra colleghi è un’area grigia rispetto al mobbing classico, quello “verticale” che oppone i sottoposti ai superiori. Ma il bullismo, o mobbing “orizzontale” come lo definisce la giurisprudenza, è tutt’altro che trascurabile: da una survey realizzata per Repubblica da Aidp (Associazione direttori del personale) emerge che coinvolge il 30% delle imprese, e per il 43% dei manager è frequente. Tra le vittime ci sono soprattutto donne e giovani. Un risultato in linea con l’ultima indagine del Workplace Bullying Institute, centro di ricerca per il quale il 30% dei lavoratori statunitensi ha avuto a che fare con colleghi-bulli.
«La violenza entra nei luoghi di lavoro in due modi, differenziabili in base al movente – spiega Silvio Ripamonti, professore di Psicologia del lavoro all’Università Cattolica – nel mobbing “classico” c’è un fine organizzativo: un interesse a eliminare un dipendente, collega o capo. Il bullismo, invece, è fine a sé stesso: uno sfogo della propria aggressività». La tipologia più diffusa, secondo l’indagine condotta su 600 manager dal Centro Ricerche dell’Aidp guidato dal professor Umberto Frigelli, in collaborazione con la Cattolica, è costituita da pettegolezzi e voci di corridoio: riguarda oltre il 50% dei casi. Seguono esclusione e boicottaggio, svalutazione delle opinioni anche davanti ai superiori (un po’ più del 30%), invasione della privacy. Il 34% degli intervistati è stato testimone di aggressioni e il 4% di maltrattamenti o minacce. «L’effetto individuale di questi comportamenti è l’aumento di malattie stress-lavoro correlate», spiega Ripamonti. Ma c’è anche un deciso impatto sulla produttività: «Crescono assenteismo e turnover».Il fenomeno lievita, e anche le denunce. In assenza di una legge, anche se diversi tentativi sono stati fatti negli ultimi 20 anni, i tribunali hanno costituito una sorta di codice del mobbing, compreso quello “orizzontale”. «La svolta è rappresentata dalla sentenza del 4 dicembre 2020 della Cassazione – spiega Emanuele Dagnino, professore di Diritto del Lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia – che amplia la responsabilità disciplinare del datore di lavoro rispetto ai comportamenti che vanno a incidere sul benessere delle persone in azienda». In pratica, il datore non solo è «responsabile se non si attiva quando queste situazioni vengono portate alla sua conoscenza», ma anche se non ne ha conoscenza diretta, «perché è comunque tenuto a costruire un sistema di protezione interno per il lavoratore». Molte aziende hanno infatti adottato sistemi di prevenzione. Aidp dice che il 60% delle imprese ha strumenti di segnalazione anonima (sportelli di ascolto, whistleblowing) o di intervento (comitatoetico, ombudsman). Circa il 20% dei manager intervistati ha previsto programmi di prevenzione. Tuttavia, afferma la presidente Aidp Matilde Marandola, «data l’ampiezza e la natura del fenomeno, è necessario pensare ad un intervento normativo mirato». L’Italia vi sarebbe tenuta, soprattutto dal momento che l’anno scorso ha ratificato la Convenzione Ilo 190 sulle molestie dei luoghi di lavoro. In apertura di legislatura è arrivato in effetti un disegno di legge che va in questa direzione: «Non è sufficiente andare avanti sulla base della giurisprudenza – dice il primo firmatario, Tino Magni, dell’alleanza Verdi-Sinistra – perché è dal 2001 che il Parlamento Ue ha invitato gli Stati membri a completare la legislazione su questi aspetti». Il Ddl circoscrive i concetti di molestie morali e violenza psicologica, le modalità in cui si manifestano e i danni relativi. Impone ai datori di lavoro di prendere provvedimenti, introduce sanzioni e centri per la prevenzione.