il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2022
Ritratto di Jorge Coulon
Jorge Coulon oggi ha 75 anni e vive a Valparaiso, in Cile. Per chi negli anni 70 seguiva la musica o la politica, che all’epoca viaggiavano su un medesimo binario decisamente più di ora, non c’è bisogno di spiegare chi sia. Assieme a Max Berrú, Horacio Duran, Horacio Salinas, Marcelo Coulon e José Seves, Jorge Coulon è gli Inti-Illimani. Un gruppo dal successo mondiale, emblema di cose diverse e confinanti. Conoscere la sua storia, “una storia”, così come raccontata nel libro-intervista di Federico Bonadonna (Sulle corde del tempo. Una storia degli Inti-Illimani, Edicola Ediciones), aiuta a capire molto più di lui, dell’intillimania e pure degli anni 70 che ci siamo lasciati alle spalle. Anni in cui gli “Inti” furono un simbolo non solo musicale.
Iniziano, ragazzi, sulla scia di Violeta Parra, con il recupero della musica tradizionale andina e dei suoi strumenti: sikus, quena, charango, bombo leguero, diventano assieme al poncho rosso il loro marchio.
Quel percorso diventa poi militanza nella candidatura alla guida del Cile di Pablo Neruda prima e di Salvador Allende poi. Per capire che legame ci fosse tra musica e politica nell’America latina dell’epoca basti pensare che nel 1970, gli Inti-Illimani nati da pochi anni, assieme a Luis Advis e a Sergio Ortega (membro del Partito Comunista del Cile e autore con i Quilapayún della canzone “manifesto” El pueblo unido jamás será vencido), incidono il disco Canto al Programa che è un tentativo, molto sudamericano, di musicare i 40 punti del programma politico del neo presidente Allende.
Arriva poi l’11 settembre 1973. E gli Inti-Illimani diventano, con tutto quel portato folkloristico, popolare e di impegno sociale, il simbolo dell’esilio dal Cile caduto nelle mani di Pinochet. Un Paese in cui, appena il 16 settembre, pochi giorni dopo la presa del potere, la dittatura ha già torturato e ucciso nello stadio di Santiago il cantautore Victor Jara. Ma questa è appunto la “grande storia”.
Poi c’è “la vita”, quella che il protagonista racconta a Bonadonna e che noi dateremo al 10 settembre 1973, il giorno prima del golpe, quello in cui gli Inti arrivano a Roma e finiscono in via dei Frentani, sede della federazione romana del Pci dove parla Volodia Teitelboim, letterato e futuro presidente del Partito Comunista cileno. Dice: “Se qualcuno proverà a far cadere Allende con la forza, il popolo lo seppellirà in 24 ore”. Erano partiti a luglio, torneranno nel loro Paese dopo 15 anni.
E intanto? Intanto il 12 settembre sono in concerto in piazza Santi Apostoli, a Roma. Sotto al palco piange Gian Maria Volonté. Il giorno dopo eccoli in Botteghe Oscure, sede del Pci. Giancarlo Pajetta, il responsabile esteri del partito di Enrico Berlinguer, che sul golpe cileno disegnò i confini dell’eurocomunismo, gli suggerisce di restare “in Occidente”: “Il partito ci sistemò alla Pensione Varese, un piccolo albergo vicino alla stazione Termini (…) Abbiamo passato lì Natale e Capodanno del 1973/74, sono state le feste più tristi della mia vita”. L’Italia divenne la loro casa per 15 anni. Vivevano, tra concerti e semiclandestinità, in una palazzina di via Sardegna a Genzano, alle porte della Capitale, ma nessuno doveva sapere che erano lì. La Dina, la polizia segreta del regime, aveva occhi ovunque: a Roma nell’ottobre del 1975 riuscì a ferire gravemente anche l’ex ministro del governo Alessandri, Bernardo Leighton, uno dei 13 democristiani cileni che si erano opposti al colpo di Stato. Così tra le compagne espatriate a far famiglia, nomi finti, case con mobili tutti uguali (Coulon era andato personalmente a ordinarli nella bassa padana col compagno Bibbo di Reggio Emilia) tour mondiali, e dischi, ecco la vita romana. Le frequentazioni con Volonté, Gigi Proietti (“fanatico di Lucho Gatica”, il cileno re del bolero), Ennio Morricone nel cui studio dei Parioli registrano i loro album, Lucio Dalla che si scusa ogni volta che li incontra per la frase di Il Cucciolo Alfredo sulla “noia mortale” della musica andina (“ma non era riferito a voi!”), Federico Fellini. Luis Bakalov li chiama per la colonna sonora de La città delle donne. I sikus di Coulon e di Duran accompagnano una scena in cui Mastroianni cammina lungo un corridoio. “Voglio che la casa sembri viva e che gli respiri addosso. E voglio che voi suoniate”, disse Fellini. Jorge ricorda anche un’intervista che fece a Mastroianni per Radio Mosca (altri tempi): “La prima cosa che mi disse, fu: ‘Io sono un socialista, mio padre era un operaio’”.
Infine c’è il ritorno a casa, in un settembre del 1988. Il volo che lo riporta a Santiago è il viaggio di un individuo diviso, un cileno “italiano”, arrivato qui ragazzo e tornato in patria uomo. Un uomo che intanto ha vissuto mentre in patria la sua parte soffriva, addirittura un “privilegiato”. Un uomo che è diventato icona tra i 200 mila che sono scappati da Pinochet. Vite distrutte, divise, rimesse in circolo. Nel 1992, a Lisbona, Coulon incontra un ex compagno di scuola, Cabello, inviato dal partito nel 1974 per seguire la Rivoluzione dei Garofani. “Mi disse che stava aspettando istruzioni”. Se lo erano scordato.